Da sex symbol in “American Gigolò” e “Pretty woman” a barbone invisibile in “Time out of mind”. Richard Gere a Roma per raccontare la realtà dei senzatetto di New York. 
 
“A New York ci sono 60.000 senzatetto di cui 20.000 sono bambini e New York è l’unico posto, per quanto ne so, in cui per  legge queste persone devono ricevere assistenza”. Queste le parole di Richard Gere irriconoscibile, nei panni di barbone, nel suo ultimo film “Time out of mind” diretto da Oren Moverman e presentato al Festival Internazionale del film di Roma.
 
Per la seconda volta alla kermesse capitolina, dopo la presentazione del film “Hachiko” nel 2009, la star hollywoodiana è protagonista di un film d’autore che ci descrive, al limite del documentario, la realtà di vita dei barboni della Grande Mela, scelta come sfondo di un aspetto della società contemporanea che interessa tutto il mondo. 
 
I barboni, persone che vivono alla giornata, senza casa, senza famiglia e senza soldi, sono completamente ignorati, emarginati ed invisibili agli occhi della gente comune. Richard Gere se ne è reso conto appieno. Nei panni del senzatetto George, l’attore, con un’impeccabile performance, si è calato con anima e corpo nella realtà dei senzatetto a tal punto da non venire riconosciuto dai suoi fan durante le riprese per le strade di New York. 
 Richard Gere nei panni del barbone invisibile in “Time out of mind” 

 Richard Gere nei panni del barbone invisibile in “Time out of mind” 

 
Nel film George (Gere) è un barbone da dieci anni. Vaga per le strade della Grande Mela senza una meta. Dorme nella metropolitana o negli atri degli ospedali per ripararsi dal freddo; non ha documenti. Quando cerca rifugio al Bellevue Hospital, il più grande centro di accoglienza di Manhattan, entra in contatto con gente invisibile ed emarginata come lui. Qui subentra quel senso universale di appartenenza ad un gruppo, di desiderio di trovare il proprio posto nel mondo. 
 
George cerca e osserva da lontano sua figlia che non vuole vederlo. Tra le tante domande che gli vengono rivolte per ottenere i documenti d’identità che gli permetterebbero di ricevere assistenza dallo Stato, George accenna ad una moglie morta di cancro e ad un’altra donna che lo ha lasciato. Ma non sappiamo niente di più. La domanda della figlia al padre: “Perchè hai deciso di vivere così?” non ottiene risposta. La sceneggiatura scarna e asciutta, non permette allo spettatore di istaurare un rapporto di empatia con il protagonista o comprenderne la storia privata e le motivazioni che lo hanno spinto a vivere così. 
 
Durante la conferenza stampa a Roma, Richard Gere ha spiegato ai giornalisti la genesi del film e la chiave di lettura obiettiva e neutrale che regista/sceneggiatore e interprete hanno volutamente proporre al pubblico.
 
“Time out of mind” è una storia molto particolare. Come mai ha deciso di portarla sul grande schermo?
Richard Gere: Volete la versione lunga o quella corta? Facciamo che vi racconto quella media. Si tratta di un copione che mi è stato proposto più di dieci anni fa, ma non sono mai riuscito a trasportarlo sul grande schermo. Sapevo che cosa volevo far, ma avevo difficoltà a comunicarlo. Quando poi è uscito il libro “Land of the Lost Souls: My Life on the Streets” di Cadillac Man, in quel momento ho capito che non avrei più potuto aspettare. Lo stile del libro secco ed asciutto era perfettamente ciò che avrei dovuto comunicare con il film. Per caso ho conosciuto Oren Moverman al quale ho chiesto di riscrivere la sceneggiatura. Ciò è accaduto un anno fa e c’è stato un rapporto di collaborazione.
 
Il film è un viaggio nella New York infernale dei senzatetto. Cosa ha scoperto?
In questi dieci anni in cui ho pensato al film ho fatto moltissime ricerche. Sono andato nei rifugi e giù per le strade. L’impronta del film sarebbe stata invisibile. Io sarei stato per strada con riprese con teleobiettivi nascosti. Abbiamo fatto una giornata di prova per vedere se potevamo attuare questo concetto. Sono andato al centro della città, al Greenwich Village, dove c’è parecchio movimento, per vedere se qualcuno mi riconosceva tra la folla. 
Avevo l’aspetto del mio personaggio e mi sono comportato come tale, e nessuno mi ha notato. Come attore e persona nota, questa per me è stata un’esperienza importante e forte. Lì, in quel momento e in quel contesto, mi sono calato nella realtà degli invisibili”.
 
“Time out of mind” segna una precisa concentrazione verso film indipendenti lontani dalle logiche degli studios. È questo che dobbiamo aspettarci dall’attore Richard Gere in futuro?
Credo che il film d’autore e i film indipendenti siano il futuro, in generale. Una volta rientravano nei piani degli studi cinematografici mentre ora non trovano più spazio per cui sta a noi continuare a fare questo genere di pellicole.
 
Nel film non si racconta la storia privata del personaggio. Perchè?
La sceneggiatura originale raccontava troppo di questo uomo, ma a me ciò non importava. Quando vedo un uomo per strada non mi interessa della sua storia; se lo guardo attentamente riesco a capirlo ugualmente e questo era il nostro scopo. Se si conosce bene la storia di una persona è facile capire l’uomo. A me non interessa la facilità, ma vivere il momento ed essere attenti e concentrati sull’uomo. In “Time out of mind” si scardina il concetto di tempo e personaggio. Qualcosa del protagonista si capisce, ma non in modo così facile.
 
È stato difficile interpretare questo ruolo?
La tecnica di recitazione è sempre la stessa: farti sparire per tirar fuori il personaggio. 
Tuttavia questo film è stato diverso perchè non dipende dalla trama. Qui si parla di sentimenti, di come ci si sente quando si è fuori dal tempo e questo per me è un concetto nuovo.

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