Eddie Vedder, il cantante dei Pearl Jam, gruppo rock alternativo di Seattle che ha venduto 60 milioni di copie (Ph© Fabio Diena | Dreamstime.com)

Il rock dei Pearl Jam è musica diritta al cuore. Una dimensione dove il palco, l’anima e il vivere quotidiano, sono parte della più autentica e intensa realtà. Nel pieno dell’esplosione del Brit Pop e la cultura distorta delle boyband (e girlband), i Pearl Jam andavano per la loro strada. Controcorrente, come sempre. Il pubblico italiano li aveva attesi invano dopo l’uscita dei capolavori Vs. (1993) e Vitalogy (1994). In tutto questo tempo qualcosa era cambiato, dentro e fuori. Dave Abbruzzese non c’era più alla batteria, sostituito dall’ex Red Hot Chili Peppers, Jack Irons, colui che mise in contatto il futuro cantante col resto del gruppo: il bassista Jeff Ament, i chitarristi Mike McCready e Stone Gossard. Ma soprattutto non c’era più lui, Kurt Cobain, il ventisettenne cantante-chitarrista dei “conterranei” Nirvana, morto suicida, la cui pesante eredità generazionale ricadde improvvisa e fragorosa sull’impavida semplicità dei Pearl Jam. Un ruolo che mal si addiceva alla band. Un ruolo che il gruppo di Seattle non era ancora pronto a sostenere, a cominciare da quello che si stava sempre più affermando come leader indiscusso, il cantante Eddie Vedder.
Adesso però, era arrivato il momento di lasciarsi alle spalle le scorie degli ultimi e tormentati periodi, tornando nell’amata dimensione live. Pubblicato il quarto album No Code (Epic Records) pochi mesi prima, il 12 novembre 1996 il tour europeo dei Pearl Jam fece tappa a Roma. Come tradizione vuole, il pubblico iniziò a radunarsi fuori dai cancelli già alle primissime ore del mattino, il tutto vissuto in una giornata da autentica estate di San Martino.

Tra il pubblico della Capitale c’era anche l’allora sedicenne Luca Villa, futuro fondatore di pearljamonline.it, il sito italiano dedicato ai Pearl Jam attivo dal 2001. “Ricordo ancora (abbastanza) bene tutto lo show, nonostante sia passato parecchio tempo” racconta scavando nella memoria.“Due momenti in particolare mi sono sempre rimasti nella testa. L’inizio del concerto sulle note di Release, che scatenò un impensabile pogo (la canzone è quasi una ballad psichedelica che poco si sposerebbe con l’adrenalina delle spallate selvagge, ndr) e l’esecuzione di Rearviewmirror. Ero a metà del parterre e nel giro di qualche secondo mi ritrovai contro la transenna, giusto sotto Eddie. Solo un momento, perché poi l’onda umana mi scaraventò altrove, sballottato tra tutti quei corpi sudati che cantavano ogni canzone”.

All’epoca i Pearl Jam avevano pubblicato quattro album e la performance attinse, come sempre generosa, da tutto il repertorio. Il primo acuto sonoro di decibel arrivò con la seconda canzone: la possente Last Exit a cui seguì l’ancor più “rabbiosa” Animal. L’album No Code si presentò ufficialmente al pubblico italiano alla quarta esecuzione, quando attaccarono con il rock classico di Hail Hail.
Difficile trovare spettatori di passaggio a un concerto dei Pearl Jam. “Ora come allora, con loro non ci sono mezze misure” precisa Luca, “È sempre stata una questione di State of Love and Trust, proprio come quella canzone che registrarono nel 1992 per il film Singles, di Cameron Crowe”.
Il live va avanti. Una dopo l’altra si susseguono Dissident, In My Tree (da No Code), Corduroy, Better Man, Not for You, Even Flow, Daughter/Androgynous Mind (Sonic Youth)/ W.M.A. Tra i fan abbondano le t-shirt con stampate le band amiche, indossate con orgoglio, il cui futuro però sembrava già parecchio compromesso, con la sola eccezione dei PJ per l’appunto, come ricorda lo stesso Luca Villa: “Nel 1996 i Nirvana non c’erano già più, i Soundgarden si sarebbero sciolti l’anno successivo mentre gli Alice In Chains avevano iniziato uno hiatus imposto soprattutto dalla salute del loro cantante, Layne Staley. In un momento così complesso, anche per il rock in generale, i Pearl Jam riuscirono a far calare l’hype che c’era stato su di loro fino a quel momento e iniziarono un discorso musicale che li avrebbe portati negli anni seguenti a incidere altri indiscussi capolavori, come Yield (1998), dandogli così la fiducia per registrare opere più strane e parecchio sottovalutate come Riot Act (2003)”.

I Pearl Jam non si perdono in fronzoli. Sono lì per suonare. Quando è già passata un’ora abbondante di concerto, decidono di esaltare l’anima dei presenti inanellando di fila la tragica Jeremy (scritta in memoria di un adolescente suicida), Hunger Strike (cover del side project Temple of the Dog dove un Vedder agli esordi dei PJ duettava con Chris Cornell dei Soundgarden) e l’epocale Black, manifesto del più straziante amore non corrisposto. Come se le emozioni non fossero già abbastanza, il set principale si chiuse con le già citate State of Love and Trust e Rearviewmirror, quindi Immortality ed Alive. Lì nel mezzo, altri due pezzi estratti dall’ultimo album: Sometimes e Lukin.

Sono passati venticinque anni dal concerto romano del 12 novembre 1996 e i Pearl Jam sono tra le poche rock band ancora in attività, con una storia lunga e importante, alla stregua degli “ancor più anziani” Neil Young, U2, Bruce Springsteen, Metallica. Già, Neil Young, proprio lui. Nella guerra impari contro la Ticketmaster per far abbassare i prezzi dei biglietti dei concerti, i Pearl Jam rimasero soli, e iniziarono i (grossi) problemi per suonare dal vivo. Il cantautore canadese li prese sotto la sua ala, incise un album insieme (Mirror Ball, 1995) e li portò in tour con sé. Una delle sue più celebri hit, Rockin’ in a Free World, fu spesso usata dalla band per chiudere moltissimi show, incluso il concerto di Roma’96, e molti anni dopo (2010) anche quello veneziano dell’Heineken Jammin’ Festival.

No Code è uno degli album più amati dai fan della band. Infinitamente diverso dai tre lavori precedenti (e quelli successivi). Nessuno si sarebbe immaginato una simile opera dopo Vitalogy. “Credo che No Code sia stato il vero disco spartiacque per il gruppo” conclude Luca Villa, “Nonostante la pochissima comunicabilità che c’era in quel momento tra i componenti, i Pearl Jam riuscirono a distaccarsi da tutto il discorso del sound di Seattle (o del grunge, che dir si voglia) andando a incidere un album che li gettò fuori da quella mischia”.

Nel concerto romano del 12 novembre 1996 i Pearl Jam suonarono anche Present Tense, tratta da No Code. Una sorta di elegia rock, placida come un ruscello e allo stesso potente come il fragore delle onde dell’oceano: “Are we getting something out of this/ All-encompassing trip? You can spend your time alone/ Redigesting past regrets, oh/Or you can come to terms and realize/ You’re the only one who cannot forgive yourself, oh/ Makes much more sense to live in the present tense – Stiamo imparando qualcosa/ Da questo viaggio onnicomprensivo? … Puoi passare il tuo tempo da solo/ A rimuginare sui rimpianti del passato, oh/ Oppure puoi fartene una ragione e renderti conto/ Che sei tu l’unico che non riesce a perdonarsi/, oh Ha molto più senso vivere nel presente”. Quella sera di venticinque anni fa, ad assistere al concerto dei Pearl Jam, c’erano giovani e giovanissimi arrivati da tutta Italia. Oggi sono uomini e donne, molti dei quali probabilmente con figli e figlie. A quel tempo erano ancora alla ricerca della loro strada, e forse ciò che sono oggi nel più profondo (ma non solo), iniziò a germogliare proprio durante quell’indimenticabile performance live dei Pearl Jam, il 12 novembre 1996 al Palaeur di Roma.


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