Classificandosi al quarto posto nella graduatoria dei maggiori esportatori di caffè, l’Italia conferma la sua fama mondiale di patria dell’espresso, con oltre 700 torrefazioni ed un giro d’affari alla produzione di 3,5 miliardi di euro. Questi sono alcuni dei dati divulgati da Patrick Hoffer, presidente della Cic,  Comitato Italiano del Caffè, in occasione dell’evento “Io bevo caffè di qualità”, tenutosi al Salone internazionale dell’ospitalità professionale, durante l’evento “Io bevo caffè di qualità”.
 
Irrinunciabile compagno della colazione degli italiani, il caffè è parte della loro vita, sia per tradizione che per quotidianità del consumo, tanto che, dal momento del suo arrivo nel Belpaese, ha contribuito a forgiarne la storia, le abitudini e la cultura.
 
Giunto in Italia all’inizio del XVII secolo, i preziosi chicchi approdarono nelle coste della Repubblica di Venezia grazie all’intensa attività commerciale che la Serenissima praticava con l’Asia Minore, terra di origine del caffè. 
 
Contrariamente alle attuali credenze, in un primo momento il caffè venne utilizzato da medici e dottori per le sue proprietà medicinali e solo in seguito iniziò ad essere apprezzato ed utilizzato come bevanda. 
Le prime caffetterie in Italia furono delle vere e proprie opere d’arte, dipinte con affreschi e arredate con tavolini in marmo ed eleganti divani di velluto: la prima ‘bottega’ in assoluto fu il Caffè Florian, uno dei simboli della città lagunare, aperto nel 1683 in Piazza San Marco e dove si trova ancora oggi, sotto i portici delle Procuratie. 
 
L’arrivo del caffè in Italia, tuttavia, incontrò forti resistenze da parte della Chiesa Romana, che si opponeva alla sua diffusione date le origini islamiche della bevanda, ma il Pontefice Clemente VII ne rimase piacevolmente sedotto e battezzò il caffè come “bevanda cristiana”, defraudandola dell’antico appellativo di “Vino dell’Islam”.
 Un must tipicamente italiano? La pausa caffè, al bar o con la moka di casa

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Da questo momento in poi, le caffetterie si diffusero a macchia d’olio in tutta la Penisola, divenendo luogo di aggregazione di poeti, scrittori e musicisti, centri culturali, ma anche vere e proprie protagoniste della storia del Paese e sede di alcune delle più grandi opere teatrali: ne “La Bottega del Caffè” di Carlo Goldoni, lo scrittore descrive il caffè come la bevanda più alla moda, sigillo della emergente classe borghese e imprenditoriale, contrapposta a quella aristocratica che beveva cioccolata ed al popolo che beveva vino.
 
Le commedie goldoniane offrono uno spaccato della vita sociale dell’Italia settecentesca, dove la bottega era già attestata come luogo di socialità, di incontro, di scambio e di appuntamento.
Il caffè in Italia fu anche simbolo della cultura, di quel gruppo di ‘illuminati’ milanesi che scelsero di dare il suo nome alla Gazzetta fondata a Milano dai fratelli Verri e da Cesare Beccaria, con l’intento di “risvegliare la cultura italiana”. 
 
Nei suoi due anni di vita, “Il Caffè” divenne il principale foglio del riformismo illuministico, contribuendo a fare di Milano e di Napoli i maggiori centri culturali d’Italia. 
È proprio a Napoli che diventerà un vero e proprio rito, una cerimonia con i suoi tempi, i suoi ritmi ed i suoi ‘segreti’: il caffè napoletano è la bevanda cittadina per eccellenza, considerato negli anni il caffè per antonomasia, celebrato in mol-tissimi film e canzoni popolari. 
 
In Italia prendere un caffè vuol dire interrompere quello che si sta facendo, concedersi una pausa, staccare: è una sorta di esortazione a cambiare qualcosa e a rilassarsi.
 
Fu proprio grazie agli italiani che questa bevanda arrivò anche negli Usa, dove negli anni Novanta le comunità italo-americane immigrate nelle maggiori metropoli statunitensi aprirono le prime caffetterie a New York  (Little Italy e Greenwich Villa-ge), Boston (North End) e San Francisco (North Beach).
 
Si dice che la popolarità del caffè nell’America coloniale esplose in seguito al celeberrimo Boston Tea Party, la protesta contro la tassa britannica sul tè, che portò la popolazione americana a considerare il consumo di tè un atto non patriottico, mentre l’atto di bere il caffè divenne un segno di indipendenza dalla Madrepatria.
 
I locali del Greenwich Village e di North Beach furono i maggiori luoghi  di ritrovo della Beat Generation, il movimento artistico, letterario e musicale sviluppatosi attorno agli anni Cinquanta e Sessanta, divenendo centri di rilancio della musica popolare americana e di ritrovo per numerosi artisti che, a volte, le trasformarono in vere e proprie sale da concerto di musica folk.
 
In questo clima di “controcultura”, nel 1971 a Seattle nacque Starbucks, la catena che da allora in avanti verrà considerata l’emblema principale delle coffeehouse in America e nel mondo. 
 
Standardizzando i negozi e diffondendo la cultura del caffè della West Coast, Starbucks dette ai punti vendita tutta un’altra connotazione, trasformando le tradizionali caffetterie in veri e propri ristoranti che servono, oltre al caffè, un ampio menù di pietanze, dolci o salate. Oltre a questo, la possibilità di utilizzare il servizio wi-fi. L’atmosfera socievole che si respira in questi negozi, ricorda in qualche modo le antiche botteghe italiane, dei veri e propri centri culturali in cui condividere idee, interessi ed esperienze con gli altri avventori.
 
Nonostante il passare degli anni e le diverse abitudini di consumo, il caffè è attualmente la materia prima più esportata dopo il petrolio e una delle bevande più amate nel mondo, ma soprattutto l’emblema della pausa, del momento speciale da concedersi una o più volte al giorno: che sia forte e ristretto come l’espresso, o più lungo e delicato, dall’Italia agli Stati Uniti, nel momento del caffè, che sia in famiglia, tra amici o anche in un’importante riunione di lavoro, l’atmosfera cambia, le distanze si accorciano e anche un incontro formale diventa meno freddo e impersonale ed è per questo impossibile, per entrambi, rinunciare a questo prezioso alleato delle nostre giornate.
 

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