A Siculiana (Agrigento) si è tenuta la manifestazione “Approdi culturali a Torre Salsa”  sotto la direzione artistica di Peppe Zambito sull’argomento “Diversi approdi, approdi differenti”. Un’occasione per riflettere  “sulla diversità degli uomini, le differenti opportunità degli individui, sui contesti che determinano i destini”.
 
Il maresciallo Roberto Rapisarda, autore del libro “Vite anNegate” (Armando Siciliano editore, pagg. 168, € 15,00), ha affrontato il tema dell’immigrazione con il punto di vista di chi lascia affetti e cose con tutte le conseguenze e le difficoltà che seguono.
 
Com’è entrato in contatto diretto con la dura realtà dell’immigrazione?
Ricordo che già nei primi anni ’80, ancora studente, nel periodo estivo, si andava nella lunga e splendida spiaggia della frazione Fondachello di Mascali (Catania), dove i bagni di sole, venivano in qualche occasione interrotti dai vucumprà di colore, che sovraccarichi di tappeti, coperte, lenzuola e ogni altro bene, tentavano di venderci la merce per realizzare, con il profitto, i propri sogni. 
 
All’inizio erano veramente pochi i venditori ambulanti di origine africana che attraversavano le spiagge. Tutti li conoscevamo bene. Tutti conoscevamo le loro storie e il loro difficile passato. È bello ricordare come l’approccio per il commercio dei prodotti, di fatto, diventava motivo di comunione fraterna. L’immigrato spesso si sedeva con noi ragazzi raccontando la propria storia, si divideva il panino tutt’insieme e c’era scambio linguistico di alcuni vocaboli di uso comune.  
 
In particolare uno di loro, Mustafha, originario del Marocco, l’ho rivisto lo scorso anno a Riposto (Catania). Incredibile incontrarlo dopo 32 anni. Eppure è successo. In quel momento io sono tornato ragazzo e lui si è tanto emozionato. 
 
Quella spiaggia e quei primi vucumprà rappresentano di certo il mio primo contatto con la dura realtà dell’immigrazione. Poi da maresciallo dell’Arma, ho avuto modo di entrare in contatto con la dura, e questa volta anche tragica, realtà dell’immigrazione, ciò nell’Isola di Lampedusa. In quel lembo di terra, il passaggio di migliaia di clandestini, mi ha fatto toccare con mano, la sofferenza umana, quella vera, quella che non immagini nemmeno possa esistere.
 Roberto Rapisarda: “Rivendendo le mie foto, mi colpisce il loro sorriso”

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In quale aspetto, in particolare, la vita degli immigrati viene annegata e negata?
La vita degli immigrati viene annegata nelle acque degli oceani e dei mari del globo, ogni qualvolta un malandato barcone sprofonda negli abissi con il suo sovraccarico umano. Quel barcone e quelle vite lottano per ore ad armi impari, contro la furia della natura, che ancora una volta si scaglia contro di loro, associata alla crudeltà e alla spietatezza dei criminali che organizzano il viaggio. 
 
L’argomento diventa più complesso quando dobbiamo parlare di negare la vita all’immigrato. Qui molto spesso, chi ha più cultura, più la dice lunga. Io desidero sintetizzare la negazione della vita riconducendola all’indifferenza umana nei confronti di chi soffre.
 
Ha analizzato il punto di vista della comunità lampedusana? Che segnali o segni ha colto?
Il cittadino che vive l’intera sua esistenza in un’isola così lontana dalla terraferma, come succede a Lampedusa (116 miglia marine dalla Sicilia), beneficia senz’altro del fatto che la sua terra è inevitabilmente meno inquinata da tutti quei fenomeni negativi che invece, contaminano le nostre “moderne” città. Ritengo che ciò rende quel cittadino un essere vivente dall’animo più “pulito”. 
 
Ma quando poi, oltre a vivere in un’isola in mezzo al mare, sei anche un pescatore e passi gran parte della tua vita al centro del Mediterraneo, lontano dalla tua isoletta, ecco che quei fenomeni negativi, puoi non conoscerli del tutto e mantenere un animo assolutamente lindo. È questo il tipo di lampedusano che io conosco. 
 
Gente discreta, semplice, dai comportamenti umili, saggia in alcuni casi, di non comune gene-rosità e con un elevato senso di amor di Patria. Ho letto in qualche quotidiano di una reazione dei cittadini lampedusani all’immigrazione. Non credo corrisponda alla realtà. Conosco bene quella gente e non gli appartiene quel tipo di comportamento. 
 
La comunità lampedusana, fin dai primissimi approdi clandestini (anni ’80-90), quando ancora il fenomeno “sbarchi” era contenuto a qualche centinaia di esseri umani, ha sempre accolto quelle vite con grande solidarietà. 
 
Poi con il passare del tempo, parte dell’economia lampedusana è cambiata e ciò grazie all’affluenza di numerosi turisti. Da questo cambiamento ne è derivato che buona parte dei cittadini, da pescatori sono diventati piccoli imprenditori turistici. Ecco che, per una insolita analogia, anche la comunità lampedusana, come gli immigrati, di colpo inizia a sognare un futuro meno disagiato.
 
In verità cosa è avvenuto? La massiccia presenza di “clandestini” e la talvolta inopportuna ed esagerata attenzione dei mezzi di comunicazione, ha danneggiato quella parte di comunità che sperava nello sviluppo turistico dell’isola, per garantire un futuro migliore ai propri figli. Ecco allora, che a voce alta, ma mai ribellandosi, quella parte di comunità ha evidenziato alcune carenze nell’opportunità o meno di concentrare e mantenere per più giorni nell’isola, masse umane così numerose.
 
Rivedendo le sue fotografie, ha notato dettagli che le erano sfuggiti in un primo momento?
Ritengo che qualsiasi foto mostri sempre dettagli che sfuggono all’istinto del primo scatto. Rivedendone alcune mi ha certamente colpito lo sguardo e il sorriso di alcuni immigrati, dovuto alla gioia di essere giunti sulla terraferma, dopo ore e ore di mare su una barca in mezzo al Canale di Sicilia, particolare che mi era sfuggito, perché inizialmente, forse come tutti, mi ero soffermato sulla spettacolarità delle immagini tragiche.
 
Quale status mentale bisogna assumere per comprendere dramma e realtà di chi sbarca a Lampedusa?
Chi sbarca a Lampedusa, ma in qualsiasi altra parte del mondo, lascia nel suo paese d’origine, gli affetti più cari e tutto ciò che possiede (spesso veramente poco: una capanna, un piccolo orto, qualche effetto personale), ma soprattutto la propria identità. 
 
Nel nuovo Paese d’approdo non ha un alloggio, un lavoro, parenti, amici e spesso non ha nemmeno un nome, costretto a rendere false generalità per sfuggire ai controlli. Inoltre ha la difficoltà a farsi comprendere e ad apprendere la nuova lingua. 
 
Credo che la giusta chiave di lettura del fenomeno immigrazione soggiorni nel cuore di ciascuno di noi. Aprire il nostro cuore alla sofferenza dei diseredati del mondo e sforzarci di toccare con mano, le loro storie, i luoghi di provenienza e le loro tradizioni, possa aiutare tutti a non essere più “singoli esseri umani”, ma “comunità”. E raccontare tut-to ciò in un libro vuole trasmettere le emozioni provate nel sentirsi utili per l’umanità. 
 

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