(Ph © Juan Bautista Cofreces| Dreamstime.com)

In scena l’Opera buffa grazie a “Don Pasquale” di Gaetano Donizetti. A interpretarlo il basso Michele Pertusi che ritorna sul palcoscenico dopo le esperienze di “Falstaff”, “La Sonnambula” e “I Puritani”. Lo abbiamo intervistato durante le prove mentre fuori è una di quelle giornate piovose con il clima che lascia a desiderare: “A Parma non è tanto migliore la situazione con la Pianura Piadana, con la nebbia del Po”, ci dice Pertusi.

Come presenterebbe l’opera “Don Pasquale” a chi non l’ha mai vista?

Cercherei di far capire che è tratta dalla grande tradizione della farsa buffa napoletana dove il vecchio benestante che vuole sposare una giovane – e qui ci si riallaccia anche alla commedia dell’arte – è una condizione vivamente sconsigliata. Bisogna poi tener presente che “Don Pasquale” è il crepuscolo dell’opera buffa italiana, intesa come tradizione napoletana, anche se qui c’è una vena malinconica che fa riflettere, un’opera che ha un peso nel Romanticismo dove il tenore è una delle figure prodromo del Romanticismo con pagine molto melanconiche e sofferte. Tutto questo in un ambito di un’opera che ha un fondo brillante e divertente. Dopo “Don Pasquale” grandi opere buffe di questa tradizione non ne sono state più scritte.

E nello specifico, “Don Pasquale” con la regia di Laurent Pelly?

È un allestimento diventato storico anche se per me è la prima volta. Qui è indovinato come approccio il fatto che si riesce a coniugare la tradizione teatrale-musicale di opere brillanti con una verità temporalmente portata vicina a noi: non è un Settecento o un Ottocento rivisitato, ma è un allestimento con abiti moderni ma con una concezione di teatro musica indovinatissima.

Che impronta darà Michele Pertusi a questo “Don Pasquale”?

Non è niente di rivoluzionario: la mia storia è sull’onda del bel canto, come formazione sono quel tipo di cantante. Nell’affrontare “Don Pasquale” e anche Dulcamara de “L’elisir d’amore” voglio invece mettere in evidenza la caratteristica del basso parlante e non del basso cantante. Il lavoro parte dal recitar cantando ma rispettando l’andamento melodico. Non è che uno parla, ma è un modo di cantare che strizza l’occhio alla lingua parlata: ci sono molte occasioni di recitativi lunghi e che hanno vari episodi all’interno. Mi piacerebbe, dunque, come stiamo parlando io e lei che abbiamo degli accenti, degli accelerandi e dei rallentandi diversi, a seconda di quello che stiamo dicendo, io vorrei fare capire questo andamento nella musica e portarlo verso il parlato naturale ovviamente con dei ritmi, delle note, una scrittura musicale da rispettare. La mia fonte di ispirazione potrebbe essere individuata in Sesto Bruscantini.

L’opera di Donizetti ben si presta a ciò con il suo ritmo serrato…

In “Don Pasquale” c’è un ritmo serrato, ma con dei momenti di riflessione, delle piccole incastonature in un momento vorticoso e mi piacerebbe riuscire a sottolinearle, che il pubblico capisse quello che io intendo. È chiaro poi che mi rivolgo a un pubblico che nella più parte non conosce l’italiano e soprattutto il colore dell’italiano arcaico, aulico dei libretti d’opera. Per me diventa uno sforzo doppio per cercare di rendere l’idea della lingua parlata che diventa teatro in musica.
Questo è un elemento che a volte si dimentica di mettere in evidenza…
Si dimentica a volte per pigrizia, a volte perché non c’è uno stimolo e allora si cerca di fare quello che più o meno va bene per tutte le stagioni, che può funzionare benissimo, però qui c’è un regista che su certe tematiche è sensibile, quindi è anche bello trovare qualche soluzione.

Pelly ha detto che il personaggio di Don Pasquale è lo stesso, ma cambia l’artista e in funzione di questo va riscoperta anche la figura del personaggio. La medesima cosa vale, in una prospettiva rovesciata, per lei e per tutti gli interpreti…

Assolutamente. Quando s’incontrano registi diversi da quelli con cui si è fatto prima Don Pasquale è chiaro che c’è sempre qualcosa di nuovo da puntualizzare, da ricercare, da rendere in maniera diversa però l’approccio alla figura di Don Pasquale, per quel che mi riguarda, deve rimanere sempre disciplinata a seconda della scrittura musicale, che guida ogni cosa. È la musica che dà anche un andamento drammaturgico al racconto; sono i tempi della musica che fanno andare avanti i tempi della parola. Dentro la “gabbia” della musica va trovata una sorta di libertà, che è tipica dell’interprete: ci può essere un Don Pasquale fisicamente diverso, con dei tempi di movimento diversi. Il regista Laurent Pelly ha inquadrato il problema: non ricrea la sua regia su di me, ma adatta determinate situazioni in modo che venga valorizzata l’interpretazione che ne posso dare io in quel momento.

Adesso vogliamo conoscere Michele Pertusi come persona utilizzando la descrizione che troviamo sul frontespizio del libretto di “Don Pasquale”, per vedere quanta corrispondenza c’è fra lei e il personaggio. Cominciamo con “vecchio celibatario”…
“Vecchio”… ci stiamo arrivando: nemmeno “celibatario” perché mi sono sposato giovane.

Poi dice “tagliato all’antica”…

Io sono molto legato alla tradizione, non sono un reazionario ma la novità la devo metabolizzare attraverso l’esperienza che viene da quello che è passato. Non mi reputo uno che guarda indietro, ma che guarda avanti con un pensiero anche a quello che ci è successo prima.

“Economo”?

Direi di no. Ho una famiglia di tre ragazzi che costa, poi non voglio diventare più ricco del cimitero.

“Credulo”?

Non posso dirlo. A me piace guardare le situazioni da ogni angolazione, è difficile che si possa parlare di ingenuità. Magari qualche volta un po’ di faciloneria, di mancanza di lungimiranza, ma ingenuità vera e propria probabilmente no.

“Ostinato”?
Chi ci crede dicono che io, essendo un Capricorno, ottengo quello che voglio. Diciamo “perseverante”, no testa dura, però determinato. Se si decide di mettere la quinta marcia, si mette la quinta marcia.

Buon uomo in fondo…

Penso di sì. Non penso di essere cattivo. Non sono un santo, sono un umile peccatore, ma non sono un cattivo ragazzo.

Nella sua carriera tante opere, riconoscimenti, premi… Parafrasando una celebre aria del “Don Pasquale”, qual è -se c’è – la virtù magica di un basso?

Essere basso è la natura che ti permette di cantare quel tipo di musica, tessitura, scrittura. Io penso che ci sia poco di magico, nel senso che ci vuole una dote naturale, perché è un mestiere non da tutti, ci vuole una dote che bisogna mantenere con lo studio, la ricerca, la disciplina; non dico che bisogna fare una vita monastica, però ci sono regole, ritmi, esercizi, lo studio della tecnica, il mantenimento della possibilità di cantare e di dare un risultato proessionale in quasi tutte le condizioni. Bisogna dunque capire anche il proprio fisico che cambia negli anni, occorre sapere gestire questi cambiamenti e trovare il modo di uscire rafforzati da una crisi. Una grande cantante, Mirella Freni, mi disse una volta: “Le crisi ce le abbiamo tutti, ma la crisi va gestita e non forzata” e forse significa conoscere meglio il proprio fisico, e sapere dove poter porre rimedio a quello che ieri funzionava e oggi non funziona. Ci sono altri meccanismi da attivare per farlo funzionare. C’è forse qualcosa di magico nel modo di essere cantante perché è un mestiere meraviglioso, ma è un mestiere, non qualcosa che ti inventi. Ha delle regole e bisogna rispettarle.

Prima di una prima, lei “si strugge d’impazienza”?

No, perché arrivare a una prima è il coronamento di un mese di prove; la costruzione di tutto l’apparato che fa sì che venga rappresentata una prima, e quindi non vedi l’ora di arrivarci. Ci vuole quella tensione che ti stimola l’adrenalina ma che non ti fa aver paura. Saper gestire le tensioni fa parte del nostro mestiere. Bisogna sempre dare un risultato continuo: devi avere il 70-75% sempre e ci vuole grande lucidità e non essere ‘sbranati’ dalle tensioni.

Agli inizi quando ha sentito questo “foco insolito” dell’opera?

Io vengo da una famiglia di melomani: stavo molto tempo con i miei nonni melomani che ascoltavano molto la radio. L’opera ha sempre permeato la mia esistenza sin da bambino. Ricordo che era una domenica pomeriggio e mi portarono al Teatro Regio a vedere “Rigoletto”: avevo dodici-tredici anni e avevo già visto due opere. Una cantante, amica dei miei nonni e di mia zia, mi fece mettere una sedia dietro le quinte e seguii l’opera da lì e vedevo i cantanti entrare e uscire, era qualcosa di magico. L’ho vissuta da un’angolazione diversa e allora mi è venuta quell’idea – forse malsana – che un giorno avrei dovuto fare quel mestiere lì e provare quell’emozione di stare lì. Poi ho cominciato a calcare il palcoscenico, conoscere persone che mi ha instradato sulla cultura dell’ascolto e farmi l’idea dei grandi cantanti del passato.

Quindi, immagino che ancora oggi lei “si sente liquefar”…

Sì, io amo molto l’opera: tutto sommato ho ancora la mentalità da loggionista nel senso dell’amore per la voce umana, per la musica, per l’opera, per il teatro d’opera. A questo punto della carriera, oramai sono 34 anni, non mi sono stancato né di ascoltare né di fare il mestiere, vuol dire quindi che la mia indole era questa.

Mi completi questa frase: “Giovani, venite a vedere l’opera perché…”

Perché è un mondo magico, un mondo che nessun altro tipo di spettacolo vi potrà dare. L’opera è qualcosa che non esiste, è irrealismo totale, non c’è realismo nell’opera altrimenti perché pensiamo di cantare anziché parlare? È il contrario del realismo e proprio per questo è un mondo magico, fatato, che ti fa vivere attraverso la sublimazione del sentimento, le tue emozioni che tu puoi provare e questo è fantastico. L’opera è il fenomeno musicale più longevo della storia dell’umanità. Qualcosa ci deve essere; non è quello che si pugnala e continua a cantare: chi canta non sono dei corpi, sono delle anime. Se si entra in quest’ottica l’opera è lo spettacolo più grande del mondo.


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