“Mi occupo di archeologia pubblica, cioè del rapporto tra gli archeologi e la società, tra i beni archeologici e i cittadini”. 
Carolina Megale, archeologa classica all’Università di Firenze, presidente dell’Associazione Culturale Past in Progress, coordina il Progetto Archeodig ed è il referente scientifico dell’importante scavo archeologico della Villa romana di Poggio del Molino a Populonia per conto dell’Università di Firenze ed Earthwatch Institute. Sua anche la supervisione sugli scavi che stanno riportando alla luce antiche tombe lungo la spiaggia di Baratti, che si stende in un ampio golfo balneare che guarda l’Isola d’Elba, a pochi chilometri da Piombino. 
 
Si fa portavoce di un’idea nuova di archeologia che non si chiude nelle università ma vuol coinvolgere la gente comune.
Il coinvolgimento del pubblico è un ingrediente essenziale per l’archeologia contemporanea e per la definizione del ruolo che l’archeologo riveste nella società. L’importanza di un bene archeologico è direttamente proporzionale all’importanza che i cittadini, la società civile, gli attribuiscono. Il nostro patrimonio non ha un valore in sé, ma un valore relazionale, quello che la società gli riconosce. 
 
Ha trascorso la scorsa estate a coordinare gli scavi sulla riva del mare per spiegare ai bagnanti cosa stava emergendo sotto la terra portata via dalle onde del mare a Baratti. 
Questa esperienza è una sorta di progetto pilota per coinvolgere il più possibile il pubblico e i cittadini di Baratti. Se il Comune fa un’operazione di valorizzazione del territorio, dal punto di vista archeologico è vitale coinvolgere i cittadini. Ai cittadini, ai turisti, raccontiamo cosa stiamo facendo perché questo è fondamentale non solo per trovare finanziamenti ma per creare rispetto nei confronti del patrimonio culturale. L’archeologia altrimenti non sarà mai una disciplina importante per la società.
 
Cosa sta emergendo dagli scavi di Baratti?
Tombe familiari con sarcofagi a lastre che si datano alla metà del VI secolo a.C. e furono utilizzate per tutto il V secolo a.C.  Siamo nel pieno periodo etrusco, quando inizia la lavorazione del ferro a Populonia e nasce la classe media di una società cosmopolita. Populonia doveva essere una città dalle due facce: gli schiavi che lavoravano il ferro nei forni e la classe dirigente e mercantile che vendeva il ferro. 
 
Queste tombe appartengono alla classe medio-alta, che si è formata a partire dal VI secolo a.C. Prima c’erano i principi, che venivano seppelliti nelle tombe a tumulo. Queste tombe sono il simbolo della classe media, della Populonia cosmopolita del VI secolo a.C. Le tombe sono identiche a quelle che sono ai lati della tomba a edicola della necropoli attualmente visitabile, ed è conseguenza della razionalizzazione della necropoli. Prima le tombe a tumulo erano messe senza un ordine apparente, poi con la nascita di questa classe media le tombe segnano, delimitano i percorsi interni, le vie sacre dentro la necropoli. 
I dati emersi hanno permesso di delineare la sequenza cronologica della porzione di necropoli populoniese che qui aveva sede e di ipotizzarne la pertinenza con il nucleo sepolcrale della Fonte di San Cerbone.
 
Queste tombe etrusche a ridosso dei bagnanti sono state scoperte a causa delle continue mareggiate.
L’area del Ficaccio, compresa tra la Fonte e la chiesina di San Cerbone, è stata a più riprese oggetto di interventi di emergenza da parte della Soprintendenza Archeologica della Toscana. 
Già negli anni ’70 sono stati effettuati interventi di recupero di sepolture messe in luce da forti mareggiate e purtroppo saccheggiate da scavatori clandestini. La spiaggia di Baratti è soggetta a lenta e costante erosione marina. In questo tratto di costa, tra il piano di calpestio e la spiaggia vi è un dislivello di circa 4 metri costituito dalla scarpata di terreno archeologico nel quale erano inseriti i sarcofagi. 

L’archeologa Carolina Megale e alle sue spalle la tomba etrusca riemersa

Cosa è stato trovato?
Due sarcofagi del tipo a lastre di arenaria. La cassa era formata da quattro lastre monolitiche, due di forma rettangolare per i lati lunghi e due con la parte superiore conformata a triangolo per i lati brevi, che dovevano sostenere la copertura. Il tetto era costituito da due lastroni rettangolari monolitici posti a doppio spiovente. Il piano di deposizione era composto da due spesse lastre quadrangolari. I sarcofagi di questo tipo avevano una connotazione familiare e ospitavano al loro interno un numero variabile di inumati.
 
I sarcofagi che ora sono stati smontati e depositati negli spazi del Parco Archeologico di Baratti cosa contenevano?
Il tetto del primo sarcofago era coperto e sigillato da uno strato che ha restituito materiale riferibile all’età ellenistica, IV-III secolo a.C. (frammenti di una glaux e di ceramica a vernice nera sovradipinta di produzione etrusco-meridionale). 
All’interno la cassa era vuota, non è stato recuperato alcun elemento del corredo funerario, solo pochi frammenti di ossa accantonati in un angolo. 
 
Il secondo sarcofago era privo della copertura, rinvenuta in frammenti in prossimità della tomba. L’interno era riempito di terra mista a un nucleo eterogeneo di reperti con ossa riferibili ad almeno cinque individui, scorie di ferro, due punte di lancia di ferro, frammenti di bucchero nero e grigio, ceramica attica a vernice nera, ceramica a vernice nera sovradipinta di produzione etrusco-meridionale, numerosi frammenti di anfore di età repubblicana (greco-italiche) e imperiale (betiche da salsa di pesce e un’anfora africana di Sullectum), un frammento di sigillata africana.
 
Attorno ai sarcofagi avete rinvenuto altro?
Immediatamente all’esterno sono stati raccolti numerosi frammenti di lamina di bronzo e un’applique a testa di Acheloo databile tra la seconda metà del VI e la prima metà del V secolo a.C., di fattura molto raffinata, anch’essa in bronzo.
 
Questo sarcofago fu certamente violato in antico. Se le ossa, le stemless cups, l’applique di Acheloo e le punte di lancia potrebbero appartenere ai defunti e ai corredi funerari deposti nel sarcofago, il resto del materiale, più tardo, deve essere messo in relazione alle attività predatorie avviate già nel III secolo a.C. (forse indiziate dalla presenza dell’anfora greco-italica) ed a riutilizzi successivi (indiziati dai numerosi frammenti di anfore tardo-repubblicane e imperiali, e dalla presenza della sigillata africana).
 
È probabile invece che il primo sarcofago sia stato violato in epoca recente. I reperti del corredo, infatti, sono stati sottratti effettuando un’apertura nella lastra della cassa, lasciando intatti il tetto e le stratigrafie antiche che sigillavano la tomba. 
 
La violazione delle tombe è una cattiva abitudine che si aveva già in epoca antica.
Anche qui, dentro il parco archeologico di Populonia, abbiamo prove che i romani saccheggiavano e distruggevano. C’è una tomba come questa completamente distrutta, divelta, con le ossa prese e buttate in una buca accanto e i corredi, i vasi di bronzo, sparpagliati a terra. 
Non so se siano stati atti vandalici fini a se stessi, perché c’era stata la conquista romana, o ruberie per appropriarsi di materiale. 
 
I tombaroli moderni fanno sicuramente più danni visto che rubano a tutti un pezzo di storia dell’umanità.
Ora si tratta di capire cosa c’è ancora sottoterra. Si trovano ancora tombe intatte. Le abbiamo trovate tra il 2012 e il 2013 quando sono stati fatti, parallelamente alla costa, scavi per le fognature. Alcune tombe erano state saccheggiate da tombaroli moderni, altre sono state scoperte intatte: una del IX secolo, dell’età del ferro, due almeno due dell’età ellenistica, fine IV inizio III, insieme a tre o quattro tombe romane poi restaurate dalla Soprintendenza. Anche i tombaroli contemporanei sono rimasti spiazzati: quando abbiamo fatto una mostra un signore mi si è avvicinato scuotendo la testa: “Allora è vero che avete trovato altre tombe. Pensavo che le avessimo levate tutte!”.
 
Nei mesi di gennaio e febbraio di quest’anno avete ritrovato anche un’abitazione. Ma in questo caso, a fare danni, è stata una violenta alluvione che ha colpito Baratti lo scorso 28 ottobre.
Scavi fatti durante le opere di ripristino post alluvione hanno riportato alla luce i resti di un’abitazione di IV-inizi III secolo a.C. riferibile alla città bassa di Populonia e il tratto di un poderoso muro relativo, forse, alla cinta muraria ‘bassa’. 
 
L’area indagata dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana alle pendici di Poggio Castello, sotto la direzione scientifica di Andrea Camilli, ha messo in evidenza che gli scavi sono stati danneggiati dai lavori per la realizzazione, negli anni ’20 del Novecento, del ponte funzionale al passaggio, sopra alla strada, della ferrovia per il trasporto dei carrelli carichi di materiale di scarto delle attività di recupero delle antiche scorie di ferro.
 
Poi hanno subito danni dalla trincea scavata negli anni ’50 del Novecento per l’alloggiamento del tubo che portava l’acqua al Castello di Populonia, lavoro verosimilmente effettuato senza alcun tipo di sorveglianza archeologica. Oltre a questa opera, in grado di alterare profondamente il contesto indagato, l’area ha subito, in epoca relativamente recente, altri interventi come il taglio effettuato per la realizzazione e l’ampliamento della strada che collega Baratti a Populonia.

Lo scavo di Baratti, tra i bagnanti incuriositi, ha permesso di riportare alla luce due sarcofagi etruschi parzialmente riemersi grazie alle mareggiate (Ph. B.Minafra)

Sono tuttavia emersi i resti di un’abitazione tardo-etrusca e di un imponente muro. 
Sono stati trovati un ambiente intonacato di cui si conserva straordinariamente il piano e parte degli alzati, i resti di quello che sembra un muro a sacco, di quasi 5 metri di spessore e un altro muro a cui si appoggia un’abitazione con i resti di tre dolia tagliati a metà dall’intervento di un mezzo meccanico che ha scavato la trincea per il tubo dell’acqua.
 
Vicino ai dolia,  che sono grossi contenitori di terracotta, sono stati raccolti semi carbonizzati (da un primo esame probabilmente grano) che dovevano essere in sacchi di stoffa. Il rinvenimento di vinaccioli, fa ipotizzare che i dolia fossero stati utilizzati per contenere il vino durante il processo di fermentazione dell’uva.
I dolia poggiavano su un pavimento in scaglie di pietra; il vano doveva perciò essere uno spazio aperto, probabilmente una corte interna adibita a magazzino. Lo scavo ha mostrato come l’abitazione sia stata distrutta da un incendio. Al momento resta incerta la data di costruzione dell’edificio.
 
Il complesso potrebbe essere identificato come un tratto della cinta muraria bassa di Populonia, che ai tempi etruschi era un importante centro di lavorazione del ferro.
Questa evidenza segnala la presenza di un’importante complesso abitativo lungo le pendici orientali del colle del Castello, il quartiere portuale o città bassa di Populonia, da localizzare alle spalle dell’attuale porto di Baratti. 
 
Questa scoperta occasionale ha dato lo spunto per riprendere le ricerche in questa direzione. Solo il proseguo delle indagini potrà chiare l’effettiva natura del contesto identificato e se davvero queste strutture possano essere riferite a un tratto delle mura che avrebbero cinto la città bassa, posta lungo le pendici terrazzate del Poggio del Castello, proteggendola con un lungo bastione posto in prossimità delle prime rampe delle pendici dei poggi. 
 
Il sistema avrebbe garantito la difesa della città dall’area di approdo che doveva risultare comunque insediata, come dimostrerebbe la presenza dell’abitazione identificata in questo scavo che risulterebbe, in questa ricostruzione, comunque addossata all’esterno della cinta muraria. 
 
In altre parole lo scavo effettuato del 2016 ha fatto emergere importanti novità.
Sì, ha offerto spunti di straordinaria rilevanza per la comprensione non solo delle realtà poste in essere ma dell’intero complesso dell’antica città di Populonia. Il dato più significativo risulta, senza dubbio, l’individuazione della città bassa di Populonia, il quartiere portuale noto fino ad oggi solo dalle fonti scritte. 
Di Populonia conoscevamo le necropoli monumentali, gli edifici industriali destinati alla lavorazione del ferro, l’area sacra dell’acropoli e la cinta di mura difensive. Ma ancora incerta restava la localizzazione del centro abitato, delle case, le botteghe, i magazzini, le strade. 
 
Dalle testimonianze scritte, tramandate dai geografi greci Strabone e Tolomeo, era noto che Populonia, l’unica città etrusca ad essere costruita direttamente sul mare, fosse formata da due nuclei distinti: la città alta, dove si trovavano i templi e gli edifici pubblici, e la città bassa  in prossimità del golfo che ospitava il porto, dove si svolgevano le attività mercantili e siderurgiche. In definitiva, le strutture ritrovate e così straordinariamente conservate ci permettono di asserire che proprio questa città bassa si possa considerare oggi finalmente localizzata.
 

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