Non mi piace la parola “amante”. Certamente è accettabile e dignitosa in un testo letterario, sul piano comunicativo e su quello artistico. E come tutte le parole scelte da chi o parla o scrive nella sua originale espressione, definisce una precisa realtà, rimanda cioè a un referente (così si dice!), che quando è inventato da un autore si chiama referente letterario.
 
Questo soggetto, fisico, astratto, o semplice contenuto di pensiero, è  individuabile non solo nella parte di significato che lo indica in sé (denotazione), ma in quella che implica (coinvolgendo emotivamente il lettore) sentimento: amore, odio, piacere, dolore, ecc., oppure ricordi: adesione, repulsione, partecipazione, sulla base dell’esperienza, e esistenziale e linguistica,  che ognuno ne ha fatto nella vita (connotazione). Per questo motivo la parola “amante” non mi piace nell’uso che se ne fa normalmente. E non mi piace per quell’accumulo di significati altri, che l’uso ha sedimentato su di essa. Preferisco: “amata”. Oppure: “amato”. 
 
La distinzione tra amore casto (sano, sacro) e amore profano (fuori dal tempio) è un classico, e si è sviluppato con l’evoluzione dell’uomo. Pensate all’inimicizia tra Giunone (la sposa) e Venere (l’amante) nella mitologia classica!
Ma ritorniamo alle parole. 
 
Per indicare l’individuo adulto della specie umana (mammifero) abbiamo le coppie di parole: “maschio/femmina”; “uomo/donna”; “signore/signora”; “marito/moglie”, e tante altre in ragione delle funzioni, dei compiti e dei ruoli; come pure: amante/amante. 
 
Non va dimenticato che ci riferiamo alla lingua italiana. È importante precisare ciò: perché la lingua, come ha detto qualcuno, è il dna del gruppo sociale.  
 
Lasciamo da parte le parole “maschio” e “femmina” (la loro origine è nell’indoeuropeo) le quali indicano la capacità e il rispettivo ruolo delle due persone nella funzione del procreare: parole queste che si adattano ai bambini e a tutti i viventi sessuati; vediamo le altre coppie.
“Signore” e “signora”. 
 
Rappresentano il gene (per restare nella similitudine) di una cultura nella quale la struttura sociale è di tipo gerarchico: prima i “vecchi”, gli anziani; poi i giovani. “Senior”, “più vecchio”: rispetto a chi è “più giovane” (“iunior”). Da “senior” (signore), poi, per banalizzazione è venuto “signora”.
 
“Uomo/donna”. Non so se la parola latina “homo” (uomo), da cui deriva l’italiano “uomo” sia da collegarsi ad “humus” (terra). Se così fosse potremmo collegarla alla forma ebraica del nome Adamo, e scorgervi un contatto culturale col racconto biblico della creazione dell’uomo, fatto dal fango e animato dallo spirito (soffio di Dio).  Donna, invece ci viene da un’altra famiglia di parole: domus (casa); dominus (padrone di casa); domina (padrona di casa). Se poi “humus” e “domus” siano collegabili è un problema su cui soprassediamo. L’etimologia ci dà l’origine delle parole; ma non possiamo pretendere di venire a capo di tutto. Non dobbiamo aspettarci l’origine prima (che non sappiamo neanche che cosa sia), ma accontentarci piuttosto di quel tanto che ci basti a capire e a capirci, affinché la lingua diventi più trasparente.
 
Per indicare lo stesso concetto con un’identica funzione semantica, la lingua francese ha selezionato la parola “femme” (latino: “femina”) utilizzandola anche per indicare l’italiano  “moglie” (latino: “mulier”, presente anche nella voce dotta dell’aggettivo italiano “muliebre” = femminile). 
 
Gli italiani, in altre epoche (vedi i poeti cortesi medievali) dicevano: “madonna” (latino: “mea domina”= mia padrona); e anche i francesi evidentemente se nel francese moderno è rimasta la forma “madame”= ([mia] signora).
 
“Marito” è anch’esso collegato a “maschio” in quanto derivante dalla stessa parola latina “mas” .   
Per concludere, un accenno a uxor. Il termine latino “uxor” (sposa, moglie) è rimasto nella lingua napoletana (unica!) nella espressione “‘nzurà” (l’atto del prendere moglie) che è lo “sposarsi” dell’uomo, rispetto allo sposarsi della donna che si dice “mmarità” (atto del prendere marito).
 

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