Nel pieno della crisi economica italiana, sui tram di Torino compare un annuncio: “Cerchi lavoro? L’Alaska ti aspetta”. 
 
In 400 rispondono all’annuncio ma solo 5 di loro verranno selezionati per compiere questo viaggio. C’è un’ex tossicodipendente, un’attrice fallita, un meccanico omosessuale/drag queen di notte, un ex militare e un professionista colpito dalla morte di un figlio. Tali personaggi, insieme allo spettatore, affronteranno un percorso, che oltre a donargli una nuova identità, gli permetterà di conoscere loro stessi e il motivo del proprio bisogno di fuga.
 
“Mirage a l’Italienne” di Alessandra Celesia, valdostana di nascita residente a Parigi, è un viaggio on the road tra gli intimi pensieri dei protagonisti, a metà strada tra realtà e finzione.
Il film, di produzione francese, ha partecipato al concorso della 18° edizione del Milano Film Festival, aggiudicandosi la menzione speciale e al Salina Doc Fest, il Festival del documentario narrativo, dove ha ricevuto un’altra menzione.
 
In questi giorni la regista è stata al centro dell’attenzione dei media per il suo esordio nel lungometraggio con “Mirage à l’italienne”, un film che contiene al suo interno diversi generi cinematografici, che s’individuano lungo il corso del film. 
   La regista valdostana Alessandra Celesia

   La regista valdostana Alessandra Celesia

 

Racconti a L’Italo Americano l’iter che ha portato a fare questo film, quale era l’idea iniziale e perché e quanto è cambiata durante la lavorazione.
Sono andata a vivere in Francia dopo il liceo, prima per studiare, poi sono rimasta per lavoro. Quando mi sono resa conto che avevo passato più della metà della mia vita all’estero mi sono interrogata sui perché ed ho voluto raccontare il nostro Paese e le sue difficoltà economiche e morali attraverso questo lungo viaggio che compiono dei torinesi alla ricerca di un lavoro in Alaska. L’avventura prende spunto da un annuncio per andare a mettere in scatola il salmone in Alaska apparso a Torino nel 1995. Ho deciso di contattare un’impresa e riproporlo. Diciamo che ho “buttato l’amo” in questo mare di problemi che è l’Italia di oggi ed ho aspettato di incontrare il desiderio di “altrove” nelle persone che hanno risposto. Poi le cose sono andate molto diversamente da come a-vevo immaginato. La realtà ha superato l’idea originale facendo evolvere il film verso un viaggio alla ricerca di se stessi più che alla ricerca di un lavoro. Più di tutto ho finito per raccontare le relazioni umane che si riescono ad intrecciare quando si è andati così lontano da non riconoscersi più.
 
Gli attori non sembrano professionisti, con quali criteri sono stati scelti?
Non sono attori, sono persone vere che mi hanno permesso di entrare molto intimamente nella loro esistenza, tanto da diventare quasi dei personaggi da film di “finzione”. Li ho scelti ai colloqui di lavoro tra 100 candidati perché mi hanno toccata profondamente per le loro storie e la loro umanità. Cercavo persone che avessero una ragione intima per voler partire in Alaska, non solo economica. Persone ferite che avessero bisogno di prendere distanza dal loro mondo per ricostruirsi.
 
Grazie ai dialoghi dei personaggi del tuo film vengono fuori tante tematiche interessanti, come l’omosessualità, la droga, ma una in particolare spicca tra le altre, l’attaccamento alla famiglia. Alla fine i personaggi pur essendo abbattuti e alla ricerca di una via di fuga, trovano un sostegno valido: la famiglia. È così?
Confermo. La famiglia è la forza dell’Italia (e il mio non è un discorso da cattolica di destra, vi assicuro!), la rete sociale che ci salva dal fallimento economico e dalla solitudine.
 
Pensa che in Italia ci sia attenzione particolare per la famiglia rispetto ad altri Paesi? 
Penso di sì, in ogni caso come accade spesso nei Paesi più “disastrati”, si rafforza la solidarietà familiare per questioni di sopravvivenza. E quando la famiglia si disgrega, è il Paese stesso che perde le fondamenta. I miei personaggi sono fragilizzati dai legami che si affievoliscono o che vengono a mancare bruscamente: il vuoto che portano dentro fa eco a quello di una società che abbandona i suoi figli. Si parla di legami primordiali, padre-figlio, madre-figli. Nel film tutti si confrontano continuamente con questo binomio ed entrano in pro-fonda empatia nella storia degli altri che soffrono per le stesse ragioni. A volte ho l’impressione che nel film si tocchino temi antichissimi della tragedia, da Medea ad Edipo. E a fare da sfondo c’è la crisi di un paese che ha abbandonato i suoi figli, in cui non c’è più sicurezza e fiducia nel futuro. I personaggi sono tutti orfani di qualcosa che non sanno definire, ma che io vedrei come il senso di dignità che il Paese deve dare ai suoi cittadini. Quando lo Stato diventa nemico, allora viene meno la base delle relazioni umane: la fiducia.
 
Ritiene che ciò possa essere utile per risollevarsi dalla crisi economica che ci sta colpendo?
La crisi economica viene da una crisi di valori: c’è chi si è arricchito a scapito degli altri. Ritornare a pensare al bene comune è la base necessaria per ricostruire. Fare pace in famiglia, ascoltarsi. Nel concreto credo che se l’Italia non è ancora sul lastrico lo dobbiamo alla forza della famiglia: penso alle ditte che si tramandano di generazione in generazione e che non chiudono per un senso profondo di continuità. Penso ai genitori che danno un tetto ai figli trentenni, alle verdure del nonno che tornano utili quando i prezzi al mercato impazzano. Ma ho una visione molto pessimistica in questo mo-mento: sento sempre più di giovani che scappano o hanno l’intenzione di scappare all’estero. 
Credo che nei prossimi anni assisteremo ad un fenomeno di emigrazione fortissimo (emigrazione “intellettuale” spesso, dei nostri superlaureati che lavorano nei call center…che stanno poi chiudendo anche quelli!).
 
Ci sarà di nuovo una grande tragedia della frantumazione della famiglia. Non siamo distanti dall’epoca in cui si partiva in America e non si faceva più ritorno. Sembra meno grave perché non siamo così poveri come allora, ma la lacerazione della di-stanza è la stessa, anche quando si parla di un’emigrazione “di lusso”. Lo sradicamento è proprio questo: perdere le radici, la famiglia-madre. È un processo definitivo che affievolisce la forza di rigenerazione di un Paese.
 
Passando al discorso registico, ciò che viene fuori dal film è un’attenzione pura e meticolosa alla realtà. Da dove nasce questo desiderio e capacità? 
Credo che venga dal teatro, che è la mia formazione e il mio primo lavoro. Il mio professore ci ricordava sempre di osservare con grande precisione la realtà prima di trovare la giusta trasposizione scenica. Nei miei documentari faccio in fondo la stessa cosa: lascio che la realtà mi indichi la via, mi immergo fino a “sentirla” intimamente vicina e poi provo a trovare le modalità poetiche per restituirla. Negli an-ni ho capito che la realtà è più forte della nostra immaginazione, più varia, più sorprendente, più giusta di tutto quello che potremmo inventare con la fantasia: se riusciamo a nutrircene profondamente, allora possiamo sperare di volare.
 
Si è ispirata a grandi artisti del passato?
Pasolini, De Seta e Kieslowski… i miei preferiti!
 
È un momento particolare per il cinema italiano, e sicuramente il film, diretto tra Torino e l’Alaska ma prodotto in Francia, dimostra un attaccamento e un consapevole distacco. Che opinione ha della situazione attuale del cinema italiano?
Il cinema italiano ha artisti di grande talento e molti film usciti ultimamente lo dimostrano. Basta che ci diano i mezzi per continuare!
 

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