Sembra quasi un ritrovo di vecchi amici, un appuntamento atteso, che si rinnova due volte l’anno sul palcoscenico del Broad Stage di Santa Monica.

Una miriade  di colori, profumi, e appassionate melodie tratte dal repertorio operistico italiano a cavallo tra il 1800 e il 1900. Protagonista della scena è il tenore Vittorio Grigolo: una star, un amico che saluta il suo pubblico e introduce familiarmente il concerto, vivace e  insolitamente frenetico.

Sul podio, il maestro Alberto Meoli, volto anche lui noto alla scena losangelina per aver collaborato in passato con lo stesso artista.

Un’anteprima mondiale del tour che presto il tenore inaugurerà nel Bel Paese, e che egli stesso ha confidato di voler “rodare” nella città degli angeli, in virtù di una sorta di rapporto di benevolenza e stima consolidata che nutre nei confronti dei suoi fedeli seguaci californiani.

Mi diverte sempre osservare l’ampia  varietà  di ascoltatori tra le fila del pubblico degli affezionati d’opera: c’è il soggetto attento e silenzioso, colto e interessato, elegante e incravattato; l’intenditore sinistroide, che sorseggia il prosecco argomentando la scelta dei brani; il giallo tailleur a fiori che illumina il foyer del teatro; il giovane musicista ansioso di riconoscere il fraseggio appena intonato in classe; l’animo semplice che ascolta incantato le emozioni mentre leggere e sognanti attraversano la quarta parete; e lo scorbutico finto appassionato, che coglie qualsiasi occasione per zittire e ammonire la caramella scartata, la chiacchiera rubata e la luce impertinente del cellulare che immortala il canto.

Complice l’ironia di Murphy, ero seduta proprio di fianco a lui, l’imbruttito signore dal naso rosso, che sollevava periodicamente la rivista informativa del concerto, fino a coprirsi gli occhi e il viso, infastidito dalla mia solerzia nel prendere appunti. Poco importa se l’alito trasudasse alcool e le sue mani s’innalzassero senza vergogna a svolgere pulizie stagionali: io,  lo infastidivo.

Divertita e ancor più mossa da Italian pride, continuo ad annotare i particolari del concerto con la naturalezza e la lentezza di un bradipo da circo.

Un’ondata di freschezza, e Rossini apre festosamente il concerto: l’ouverture  del Barbiere di Siviglia, la solare garanzia che assicura gradimento e allegria per tutta la durata dell’esibizione. Vittorio esordisce scalpitando con il sempreVerdi  (doveroso il gioco di parole) Rigoletto, introducendo anche la bella Michaela Marcu, soprano rumeno, soffice e delicata nei pianissimo, un po’ meno rigorosa nelle agilità.

Un’incongrua Primavera di Vivaldi, si interpone tra la maggioranza delle composizioni romantico/veriste previste dal programma; e siamo subito catapultati nella dolcezza e ingenuità di Nemorino che piange furtivamente la sua commovente e triste lacrima (anche per i tempi lenti del direttore), e si infiamma subito dopo con l’orrendo foco della trovatesca pira.

Ed eccoci all’intervallo. Un po’ di bollicine dopo, e l’infelice e “sobrio” ascoltatore ripone la rivista a terra con fare minaccioso, forse esausto. 

Siamo alle solite, si spengono nuovamente le luci in sala e il Duca di Mantova seduce con magnificente arte belcantistica gli astanti e la disinibita Maddalena, difficile distogliere lo sguardo e l’orecchio da cotanta bellezza.

E mentre Rodolfo si appresta a scaldare delicatamente la gelida manina di Mimì, mi diverto a giocare alle marionette, fingo di apprestarmi ad annotare particolari della scena, alternando ripensamenti e pause, e osservando ilaremente lo sciocco muoversi del mio vicino che afferra con decisione il suo fiero siparietto per evitare di essere distratto.

Un di’ felice, eterea , recita Alfredo –  la Traviata, croce e delizia che appaga definitivamente la fervida aspettativa degli ascoltatori e ci conduce sino alla fine di questa singolare esperienza. 

In un moto colmo di commozione e inebrianti e sussurate nuance,  Grigolo racconta la solita storia del pastore, il Lamento di Federico, a mio avviso,  la pagina musicale più alta ed emozionante della serata.

A Leoncavallo affida il compito poi di concluderla, seppur tra gli sguardi ancora avidi del pubblico che lo costringe caldamente ai tradizionali encore di sempre.

O Souverain,  E lucevan le stelle, Quel guardo il cavaliere,  e Libiam nei lieti calici, riecheggiano tra gli applausi scroscianti e l’imbarazzo del direttore più volte ripreso dal tenore per aver indugiato troppo con la bacchetta.

E infine, O Sole mio,  si accompagna ai tarallucci e al vino, ormai esauritosi, del mio amico ebbro di risentimento e tronfio di stupidità.

Mi alzo, e mi precipito all’uscita prima che la folla mi soffochi di chiacchiere. Lui sospira sollevato e si scosta soddisfatto per lasciarmi andar via, in un guizzo di reciproco (finalmente) lieto accordo.

 Vado via con una smorfia incerta tra l’incanto, la delusione e un forte senso di nostalgia, per lei, la musica: (s)fortunatamente non sono nella lista degli spettatori usuali, sono un sognatore. 


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