I bambini corrono instancabili. Biciclette sparse un po’ ovunque. Aromi della cucina kosher si fanno strada nell’aria lagunare. 
Lì, nel campo del Gheto Novo, tracce indelebili della memoria. 
 
Quella che ancora oggi si scontra con il più becero negazionismo. Oggi, a Venezia, nel sestiere di Cannaregio, la comunità ebraica vive il quotidiano di un’esistenza pacifica.
Abbandonata la sempre troppo trafficata Strada Nuova, passo dopo passo, bacaro dopo bacaro (le tipiche osterie locali), mi sposto in Fondamenta della Misericordia e, costeggiando uno dei tanti canali, sopraggiungo nell’attigua Fondamenta degli Ormesini fino ad attraversare, alla mia sinistra, un ponte in ferro. Dalla sponda opposta si sente un incredibile schiamazzo infantile. Proviene dal Campo de Gheto Novo. 
 
Già secoli addietro, Venezia, antica porta d’Oriente, era un centro popolato da culture di tutto il mondo. Secondo la tradizione, la prima presenza ebraica qui si registrò agli inizi dell’XI secolo. 
A partire dal 1516 tutta la comunità giudea venne fatta confluire nell’allora zona delle fonderie e da quel momento dovette sottostare a leggi non sempre tolleranti, incluso il mostrare un segno d’identificazione. 
 
Nacque così il primo ghetto, chiuso da portoni durante la notte e di cui oggi rimangono ancora i segni di quei cardini. La situazione cambiò radicalmente con la caduta della Serenissima e la conseguente annessione al regno napoleonico, fattore questo che dal 1797 permise agli ebrei di andare a vivere ovunque volessero, potendo inoltre svolgere qualsiasi tipo di mestiere. 
Poco cambiò fino al 1938 quando l’avvento del Fascismo portò alla promulgazione delle leggi razziali. 
Furono 246 gli ebrei veneziani deportati nei lager della Soluzione Finale. 
 
Tutti i loro nomi sono incisi sopra assi di legno, protette da sbarre di metallo. Nel leggere quelle poche righe si può ancora carpire il terrore di uomini, donne e bambini, che strappati alle loro vite, furono obbligati a viaggi massacranti fino a sprofondare nell’incubo dell’annientamento dei famigerati “campi di sterminio”.
Oggi il ghetto di Venezia è un quartiere sereno e ricco d’interesse storico-artistico, a cominciare dalle cinque Scole o sinagoghe, ciascuna delle quali con il nome riferito al gruppo etnico che realizzò la propria: Schola Canton, Schola Italiana, Schola Levantina, Schola Spagnola e Schola Tedesca. Gli ebrei del ghetto si vestono in modo tradizionale: pantaloni neri, camicia bianca e kippah per i maschi, gonna lunga per le donne. I sapori della cucina kosher poi, con due ristoranti ravvicinati, raccolgono consensi dai palati di tutto il mondo (Venezia inclusa). C’è anche un forno dove il soffice impasto alla mandorla delle impade è un’overdose di bontà. 
 
Ogni anno, in occasione della Giornata della Memoria (27 gennaio) e della festa della Liberazione (25 aprile), il ghetto ebraico assume ancor di più i connotati di crocevia culturale per l’intera popolazione, catalizzatore di studio e riflessioni. 
 
Passeggiare nel Gheto Novo è come andare a scuola. Si scopre per esempio la storia del livornese Adolfo Ottolenghi, rabbino di Venezia dal 1919 al 1944. Catturato, fu deportato ad Auschwitz dove perì. Altrettanto commovente la lapide dedicata a Giuseppe Jona (1866-1943), presidente della comunità ebraica veneziana, che pur di non consegnare ai nazisti la lista degli ebrei presenti in laguna, si tolse la vita. Poco distante dalla Casa Israelitica di riposo c’è un monumento commemorativo sulla deportazione, rappresentante fiumane avviate verso i convogli della morte con a fianco altre incisioni di quella drammatica epoca. Lì, nel bronzo, è incisa una delle pagine più nere dell’umanità. Poco sopra, un emblematico filo spinato da cui talvolta si erge della vegetazione. Come se Madre Natura volesse dare il proprio contributo nell’affermare che la vita saprà sempre trionfare sull’orrore. 
 

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