“Post fata resurgo”. È il motto che compare nello stemma del comune di Castellammare di Stabia, fiorente cittadina all’altra estremità del magnifico golfo napoletano. La citazione ci giunge dalla classicità romana e trova motivazione nell’evento storico della eruzione vesuviana del 79 d.C. che causò la distruzione, per alcune addirittura la scomparsa, di “belle e prospere città della Campania”. 
 
All’antica Stabiae, che nel corso della storia cambierà nome fino a chiamarsi Castellammare di Stabia, contrariamente che a Pompei, toccò la sorte di una felice ricostruzione, che, considerata la lunga teoria dei secoli, possiamo considerare solamente temporanea. Da qui la giustificazione e la puntuale pertinenza della scelta dell’espressione “post fata resurgo”. 
 
Ma meglio sarebbe stato: “Post fata resurgam”, proiettando al futuro lontano (comprendendo la storia dei nostri giorni) il ripetersi insistente e caparbio delle rinascite ad ogni decadenza della tante volte rifiorita cittadina; e ancora bella oggi, nonostante l’abbandono in cui versa. 
 
Ma, poiché per nostra libera scelta ci siamo ritagliati lo spazio delle analisi linguistiche con la prospettiva di una maggiore trasparenza della lingua che usiamo, ci limiteremo, nell’ambito del nostro compito programmatico, ad analizzare l’espressione con una particolare sottolineatura  della parola “fata”.
 
Tecnicamente l’espressione è quella che si definisce una “frase semplice” (un unico enunciato; o, se preferite, una sola proposizione principale); perciò essa non presenta grandi difficoltà di analisi. Più difficile è capirne il senso ai fini della traduzione italiana. 
 
“Post” è dopo. “Fata” (plurale) sono i fati (ciò che comunemente diciamo il destino o per meglio dire “ciò che deve accadere”). “Resurgo” è la prima persona dell’indicativo presente del verbo; “resurgam”, lo è del futuro. Traduzione: “Dopo i fati risorgo” (presente) oppure “Dopo i fati risorgerò” (futuro). La frase non esprime una speranza, ma piuttosto una certezza: finito un ciclo, ne inizia un altro. 
 
Passiamo adesso all’etimologia della parola “fatum” di cui fata è il plurale. A scuola l’abbiamo letta come qualcosa che prevarica la volontà degli dei, traducendola spesso con il termine italiano: destino. Ci dicevano gli insegnanti, specialmente durante la lettura dei poemi epici greci e latini, che il Fato è una volontà superiore, alla quale anche gli dei soggiacciono. Perciò i loro interventi a favore degli uomini per i quali essi parteggiavano, oltre ad indicare un valore puramente simbolico, sia esso esistenziale oppure letterario, non potevano mai modificare le decisioni (già fissate: “fata”, le cose dette) degli oracoli. Perciò noi, confortati anche dagli insegnanti, traducevamo banalmente: il destino.
 
Non so se in italiano la parola debba essere scritta con l’iniziale maiuscola. Si può anche pensare che la cosa dipenda dalle convenzioni e dalle convinzioni, e perciò dai segnali che si vogliono trasmettere nella comunicazione. Nessuno tuttavia, credo oggi scriverebbe “Destino” (con la maiuscola).
 
Eppure presso gli antichi Romani, ma già presso i Greci,  il Fato era qualche cosa di più del destino. Era una necessità. La necessità del divenire storico. Sentita come trascendenza. Alla quale naturalmente erano sottoposti anche gli dei.
 
Ed è evidente dal momento che gli dei della mitologia classica, secondo la concezione dell’uomo antico, si comportavano proprio come gli uomini, e degli uomini avevano pregi e difetti; ne riproducevano i comportamenti, e quando prendevano parte alle vicende umane (entrando nella storia) schierandosi per l’uno o per l’altro eroe, col loro intervento non riuscivano a modificare ciò che era predestinato, stabilito, detto (o scritto), fin dal principio. A meno di non inficiare il valore simbolico del Mito stesso. (A riprova di quanto detto, vedansi i racconti dei poemi epici e della tragedia classica).  
 
Perciò Fatum è “ciò che è stabilito dall’eternità”, è “il Detto”. Che esiste prima del tempo dell’uomo (la storia), e fuori dal dominio degli dei (trascendenza).

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