Per lungo tempo si era creduto che la parola Carosello (la prima parte dell’articolo è sull’edizione della scorsa settimana, ndr) fosse di origine straniera. Forse francese: “carrousel”, che indica la giostra sfrenata di cavalli o di altri veicoli in un’area circoscritta; perciò come tale la si considerò derivata dal latino carrum [carretto] o, meglio ancora, currus [carro]. Semplicemente perché le parole si assomigliavano; e anche i significati in qualche modo, ché nell’uno e nell’altro caso rimandavano ai carri.
 
Ma non si era preso in considerazione né l’area di diffusione della parola, né la sua storia legata a manifestazioni praticate (e perciò presenti) in certe realtà sociali.
 
Fu Benedetto Croce che mise in discussione la ricostruzione fatta da W. Meyer-Lübke nel Romanisches Etymologisches Wörterbuch (REW) giungendo ad altra conclusione, riconosciuta ormai anche dagli stessi dizionari francesi. 
 
(Vedi: Dictionnaire de la langue française – Le Robert pour tous – [1994], secondo il quale “carosello” è una voce di origine napoletana: “Nome di un gioco – da “caruso”, testa rasata – nel quale i giocatori si lanciavano delle palle dalla forma di  teste”). Ho tradotto alla meglio.
 
A questo proposito mi piace riportare anche il lemma “carosello” del Dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli (Firenze 1971): “Carosello, 1. Specie di torneo o parata di cavalieri, con vari giochi ed esercizi, introdotto a Napoli dagli Spagnoli nel sec. XVI. 2. Giostra (per divertire i ragazzi nelle fiere). 3. Movimento vorticoso di vetture in uno spazio limitato. 4. Carosello tranviario, l’anello formato dai binari a un capolinea. [Dal napoletano carusiello  “palla di creta” (equivalente a “testolina di caruso” o ragazzo) perché i cavalieri giostranti si lanciavano reciprocamente palle di creta]”.  
 
Nel Seicento quindi si praticava a Napoli, importato dalla Spagna, come detto, ma di origine araba, il gioco delle canne o dei cavalli, in cui dei cavalieri lanciavano punte di canne o palle di creta (“i carusielli”). 
Ancora oggi noi chiamiamo “carusiello” un identico oggetto di creta offerto ai bambini per custodirvi le poche monete risparmiate durante la giornata (altrove chiamato “il porcellino” o “il kirieleison”). 
 
Quindi il carusiello è una piccola testa rapata. Ma “testa”, prima di significare capo, significa terracotta: infatti oggi chiamiamo “testa” proprio il vaso di terracotta dove coltiviamo le piante ornamentali. Quindi se il coccio di terracotta è passato a significare anche capo è solo perché già nell’antichità si producevano terrecotte a forma di capo umano (o per le statuette votive o per le urne cinerarie, oppure per conservare nei loro lineamenti le immagini di persone trapassate). 
 
Concludiamo: carusiello = vaso di terracotta dalla forma di testa rapata, da carosare o carusare (tosare), a sua volta dal latino cariosu(m) (corroso). 
E rimando alla voce  siciliana:  “caruso” (ragazzo). 
 
Una volta quando c’era il barbiere di quartiere all’angolo della strada tutti i ragazzi fino ad una certa età portavano il “caruso”, forse per necessità pratica (o più esattamente igienica). 
Ma ancora mio padre usava il termine “scaruso” per dire che ero uscito senza aver preso il cappello. 
 
Prima di siglare questo articolo vorrei segnalare la pagina di lettura da cui ho tratto la maggior parte di queste informazioni, diciamo: da dove ho tratto lo spunto per parlarne. L’opera è  L’Etimologia di Alberto Zamboni, Ed. Zanichelli (Bologna 1979). Basta andare a pagina 160. Con questo voglio dire ai lettori e ricordare a me stesso che non sempre quello che produco è farina del mio sacco; mentre invece è tutta mia la sensibilità, insieme ad alcune argomentazioni.
 

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