Un’occasione particolare, in cui l’Istituto Italiano di Cultura non si è limitato a invitare il giovane e talentuoso documentarista, Nicola Campiotti, a presentare la prima del suo docu-fiction Sarà un Paese (2014) al pubblico losangelino in una serata di grande successo, testimoniato anche dall’allestimento di un secondo schermo per far fronte al numero di partecipanti. Campiotti ha risposto con entusiasmo alla proposta della direttrice dell’IIC, Valeria Rumori, e di Fondazione Italia di arrivare una settimana prima negli States per proiettare il suo affresco sull’Italia di oggi presso alcune scuole ed università californiane.
 
Parlaci della tua formazione e in particolare del momento in cui hai deciso di dedicarti al cinema.
Sono laureato in filosofia, con una tesi sulla filosofia come “pratica”, ovvero modo di stare al mondo. Ho ripreso il concetto greco originario di scuola filosofica, non basata su speculazioni teoriche e teoretiche volte a informare, ma mirate a formare. Questa tesi ha costituito un passaggio importante, pur sapendo già che volevo fare cinema. Provengo da una famiglia di “cineasti”. Da piccolo, frequentavo spesso i set di mio padre. A quattordici anni, i miei genitori mi hanno regalato una telecamera e da allora ne porto una sempre con me.
Fin da quando mi sono iscritto a Filosofia, ero determinato a dedicarmi al cinema. Questo corso di studi mi permetteva di pormi continuamente il quesito sul tema del mistero rappresentato dall’essere umano. In fondo, ogni storia che raccontiamo costituisce una variazione su questo tema. Filosofia e cinema sono entrambi modi di guardare al mondo e a se stessi.
Mentre procedevo lungo il mio percorso accademico, ho stabilito di portare a termine ogni anno un progetto video. Tra questi, i più riusciti sono due: il primo è un documentario girato con mille dollari in una periferia di Napoli; mentre quello del mio ultimo anno universitario è un corto di nove minuti, girato senza attori a New York. Mi sento come un filosofo, in un continuo processo d’indagine senza mai giungere a un vero e proprio punto d’arrivo, e non so se il mio mestiere definitivo è quello di filmmaker.
 
Com’è nata l’idea di Sarà un Paese? Parlaci del processo di scrittura della sceneggiatura, ma soprattutto di ricerca delle testimonianze che volevi raccontare.
Ho voluto scegliere dei temi che fossero delle priorità attuali, per immaginare un paese diverso. Questo film è nato più da un’esigenza civile, a favore di una partecipazione civile, in un periodo in cui tutti i miei amici emigravano all’estero in cerca di possibilità migliori. Simultaneamente, mio padre aveva avuto dei figli da un secondo matrimonio ed io, dopo una vita da figlio unico, mi ritrovavo a ventotto anni con fratellini che avrebbero potuto essere figli miei. Spesso facevo il babysitter e, trascorrendo diverso tempo con loro, mi chiedevo cosa si potesse raccontare a dei bambini sull’Italia di oggi.
Il mito greco di Cadmo mi è sembrato un ottimo punto di partenza. In esso, una donna di nome Europa viene rapita, così come la nostra Europa di oggi è un po’ “rapita”. Cadmo, fratello della ragazza con cui condividevo la veste di fratello, per me nuova, parte allora alla sua ricerca. Nel mito, si racconta che Cadmo trova l’alfabeto e lo diffonde tra gli uomini, ma in nessuna versione si spiegano i dettagli della sua scoperta e così ho immaginato che esso derivi dal porsi in ascolto dell’altro.
Ho scelto di parlare dell’abicì di una società civile, dieci aspetti che costituiscono le sue fondamenta: un senso profondo di sintonia con la natura, un’idea di multiculturalità, di multi-religiosità. Ho voluto mostrare una società consapevole dei propri limiti, ma anche in grado di dire “no” alla Camorra e alle mafie. Ho iniziato a scrivere a varie persone e sono andato a trovarle, senza portarmi la telecamera. Ho trascorso del tempo con loro, ricevendo senza filtri la loro sofferenza. Quindi, ho chiesto loro se erano disposte a ideare un modo per raccontare le loro vicende a un bambino, di fronte alla telecamera. La versione filmata, perciò, rappresenta la trasformazione del loro dolore, è il racconto di un mondo ferito, ma senza rancore.
Altro materiale proviene dal viaggio stesso. In esso, non è importante tanto la meta fisica, ma il processo stesso di andare, spostarsi, rappresenta la meta in sé. In un progetto durato quattro anni, dal concepimento alla sua attuazione, ho raccolto 130 ore di materiale e ne ho montata poco più di una nel prodotto finale. 
 
Trovo che le scene, brevi e concise, in cui mostri le diverse religioni e la parabola islamica sull’uva, chiamata con diversi nomi e dunque causa di discordia, siano le più efficaci nel trasmettere il messaggio sull’importanza di comunicazione e convivenza tra più culture. Hai mai pensato di concentrarti unicamente sul tema del linguaggio, magari trovando altri miti o parabole simili?
In qualità di fratello e di educatore nelle scuole, cerco sempre di accostare la realtà a un racconto. Infatti, trovo che nella società di oggi, ci siano poche versioni di racconti differenti, ovvero ci sono poche variazioni sul tema. Siamo tutti informati dalle stesse fonti: in particolare, social media e Google. Nell’Occidente sono cinque o sei per tutti. Mi piace accostare all’informazione anche qualche aspetto della formazione, la realtà cruda al mito, che è gioco, origine, memoria. Trovo che le parabole siano fertili, oggi che si è perso il gioco e la lentezza del rito. I miti e le parabole mi riportano a un tempo lento, ad esempio quello della narrazione orale, che non è “economico”, ma naturale.
 
Ci sono registi o sceneggiatori che prendi a modello, che ti ispirano?
Amo la tradizione del documentario italiano. In particolare, Comizi D’amore (1965) di Pasolini. Quel suo andare in giro per le spiagge a interrogare la società sulla sessualità. Mi piacciono i lavori di ricerca documentaristica in Sardegna e Sicilia di Vittorio De Seta. Tra i grandi maestri del cinema italiano apprezzo molto Fellini e la sua capacità di mescolare il sogno al reale. Tra i cineasti americani sono affascinato in particolare dai lavori meno recenti di Paul Thomas Anderson. Credo che, considerata anche la mia formazione umanistica, i miei film difficilmente saranno scollegati da uno sguardo sulla società. Questo tempo attuale ci chiede di essere partecipi di quanto accade. 
Sarà un Paese è nato come volo d’uccello, come panoramica dall’alto sull’Italia e le sue possibilità.
Credo che sarò sempre attratto dal senso e dal mistero del nostro stare al mondo.
 
Parlaci della tua recente esperienza a Los Angeles. Che rapporto hai con la città?
L’esperienza è stata notevole. Ho proiettato il mio film una decina di volte, presso scuole e università californiane, esplorando situazioni socio-economiche assai diverse. Ho incontrato insegnanti d’italiano straordinarie – di cui la maggior parte sono americane – che hanno svolto un lavoro incredibile, insegnando un perfetto italiano ai ragazzi. Sono stato presso due licei delle “outskirts” losangeline: San Pedro Senior High, frequentata da una numerosa comunità di origine messicana, Granada High School e Venice High School, dove mi hanno accolto calorosamente con dei regali. Sono stato, inoltre, alla University of California, Santa Barbara (UCSB) ed alla Chapman University, nelle quali il livello socio-economico è più elevato. Infine, ho fatto visita a una scuola elementare, la Franklin Magnet Elementary School (Glendale). Il film ha fatto breccia, nonostante le mie paure iniziali che il mio lavoro fosse troppo italiano-centrico. Mi sono sentito arricchito e privilegiato per avere avuto una tale opportunità.

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