Tre grandi spettacoli hanno ricevuto l’applauso del pubblico romano al Teatro Quirino e all’Eliseo.
IL MERCANTE DI VENEZIA- Estro e talento personale, l’esperienza che arricchisce ogni passaggio e la consapevolezza di condividere con un gruppo di giovani attori l’avventura di un capolavoro del teatro shakespeariano. Un immenso Giorgio Albertazzi è l’anima di una Compagnia di giovani che portano in scena, sotto l’attenta regia di Giancarlo Marinelli, una nuova versione de “Il Mercante di Venezia”.
L’interazione risulta buona e fruttifera e con un’idea forte, il tramonto di un’età che è quella di Shylock messa a confronto con la sfacciata giovinezza dei comprimari.
Scenograficamente di impianto classico, questa nuova produzione del Teatro Ghione riletta dallo stesso Albertazzi porta in scena Il Mercante con tutti segni che hanno attraversato testo e vicenda: ispirata a una novella del Pecorone di ser Giovanni Fiorentino intrecciata con la storia dei tre scrigni della novellistica orientale, nel contesto di una Venezia dedita ai commerci, si snoda una delle tragicommedie più ambigue e controverse di Shakespeare portando alla ribalta i grandi temi dell’antisemitismo, della religione, l’amore, l’amicizia, la solitudine.
Spiega Marinelli nelle note di regia a proposito di questa versione che vede come una sinfonia della giovinezza contaminata (ma fino a che punto?) dalla malvagità e avarizia di Shilock, qui nelle vesti di un malinconico signore in velluti elisabettiani: “Giorgio Albertazzi ha fatto del Mercante un perfetto ibrido che sembra ora scritto da Strindberg e ora da Sartre passando per la lussuria di Baffo e per i giocosi azzardi di Goldoni. Shylock odia Antonio, Bassano e la loro cricca, perché vorrebbe depredare quella giovinezza che non ha più (di qui l’ossessione di quella libbra di carne che ha, di fatto, lo stesso significato dell’ossessione per l’immortalità di Faust).
Antonio e Bassano odiano Shylock perché in qualche modo scorgono in lui il tramonto, il capolinea, il bicchiere rotto a fine festa che inesorabilmente li attende”.
Visto da questa prospettiva a Shylock è rimasto ben poco dell’ebreo rachitico, obliquo ed incartapecorito tratteggiato da Celine per divenire invece magnetico ed irresistibile, sciamanico e perfettamente padrone di ogni avventura e sventura, è lui che decide di chinare il capo e di perdere tutto… condannandosi all’emarginazione e ad un’immensa, tragica solitudine. Migliore omaggio non si poteva rendere al genio di Shakespeare nel 450 esimo anno dalla nascita.
UOMO E GALANTUOMO – In una località turistica balneare una Compagnia di guitti, l’Eclettica, (già dal nome non pone limiti alle sue presunte attitudini artistiche), cerca di portare in scena Malanova di Libero Bovio.
La vicenda, ridotta in uno spazio scenico che rimanda a un surreale circo chagalliano libero da ogni realismo, intreccia una banale storia di tradimenti tutta borghese con l’improvvisazione e la mancanza di talento della scalcagnata Compagnia.
Da un certo punto di vista Uomo Galantuomo, commedia scritta nel 1922 da Eduardo De Filippo, si può leggere nella sua struttura di teatro nel teatro attraversata da echi e sapori pirandelliani. Oppure come un assurdo, grottesco elogio della pazzia, utile scappatoia utilizzata dai protagonisti come ultima risorsa quando la realtà diviene troppo disturbante e le richieste degli altri diventano pressanti o insostenibili.
La commistione genera una divertente, assurda commedia degli equivoci, francamente una farsa che si trasforma nel secondo atto in puntuta riflessione su modi e convenzioni di una borghesia attenta al perbenismo e all’apparenza mentre accanto si gioca il comico dramma proletario di chi ogni giorno è costretto ad affrontare la sopravvivenza.
Dice Alessandro d’Alatri, autore della rilettura portata in scena: “Mi sono avvicinato a questo lavoro con tutto il rispetto che si deve a uno dei protagonisti del Teatro del ‘900, ma con la regia spero anche di far emergere come la pièce, spesso considerata solo una farsa, sia in realtà un lavoro in cui si respira l’aria di Goldoni, Shakespeare, Beckett, Jonesco. E dove, tra le risate, Eduardo mette a nudo le contraddizioni della borghesia” .
LA PROFESSIONE DELLA SIGNORA WARREN – Un classico di George Bernard Shaw ha aperto la stagione del Teatro Eliseo con Giuliana Lojodice, Giuseppe Pambieri, Federica Stefanelli.
Prostituzione ed emancipazione femminile esposte con cinico sarcasmo in un contesto di moralità vittoriana costituiscono il terreno di coltura del clima ipocrita e falsamente perbene descritto nella molto teatrale piece di George Bernard Shaw, La professione della Signora Warren.
I tempi sono molto cambiati da quando il drammaturgo inglese scrisse questa commedia sgradevole, come la volle chiamare lo stesso autore, perché racconta verità scomode e urticanti: mutati tempi e circostanze, si tratta di compromessi e vicende che fanno comunque parte delle convenzioni e della vita di oggi in cui però quasi nessuno più si scandalizza da dove proviene l’odore dei soldi.
Il nuovo allestimento di Giancarlo Sepe avvolge di un tono dark la vicenda ambientata in un clima perbenista e borghese anni ‘50. Kitty Warren è una tenutaria di case di tolleranza e grazie ai lauti proventi di questa inconfessabile attività ha potuto mantenere la figlia Vivie nel lusso e nei migliori collegi.
Dopo anni di lontananza, madre e figlia si ritrovano, ma l’interferenza di quattro uomini legati alla signora Warren manda all’aria i buoni propositi. La pièce si concentra sul rapporto madre–figlia, sul tentativo di recupero di un rapporto che non ci sarà se non per un breve momento in cui sembrano incontrarsi. I ritratti delle due donne si rivelano atrocemente complementari nel loro spietato assolutismo: quando la ben educata Vivie viene a sapere la verità sugli illeciti commerci della madre, pur disposta a perdonare la sua passata attività di prostituta costretta da circostanze di povertà, si dimostrerà rigida ed inflessibile, deciderà di mantenersi da sola e di non avere più contatti con la madre.
Percorsa da una forte tensione etica, efficace, pungente, molto teatrale, “La professione della Signora Warren” è un dissacrante affresco, un sarcastico, cinico processo alla società del tempo. Giuliana Lojodice é bravissima nel dare i giusti toni alla personalità della madre che vorrebbe ritrovare una rispettabilità accanto alla più che rispettabile e intelligente figlia.
Nel ruolo di Crofts, socio in affari della madre, un brillante Giuseppe Pambieri, straordinaria Federica Stefanelli nel ruolo dell’inflessibile Vivie, ma tutto il cast si distingue per la capacità di rendere al meglio le spregiudicate contraddizioni di cui si nutre l’ambigua e mirabile creazione di Shaw.