Di recente ho avuto l’occasione di conversare con Stefano Galli, talentuoso fotografo modenese classe ’81, che vive e lavora a Los Angeles da quasi quattro anni. Non appena atterrato a Los Angeles, infatti, si è innamorato a prima vista della città californiana.
 
Dopo Cars, primo capitolo della sua trilogia sui mezzi di trasporto in America, si è appena conclusa una mostra dedicata al secondo capitolo, intitolata 80 Skies e composta da 80 scatti “aerei” che ritraggono diversi velivoli, alle volte talmente minuscoli da costringere lo spettatore ad avvicinarsi per distinguerli dallo sfondo del cielo multicolore.
Ben lungi dal soffermarsi troppo su un singolo progetto, Stefano sta ora girando un documentario/video arte in 16 mm, raccogliendo testimonianze di persone che vivono in aree rurali degli Stati Uniti. Simultaneamente, sta realizzando una serie fotografica su rodeo e cowboy.
Si possono seguire le avventure artistiche di Stefano Galli sul suo sito web stefanogalli.com.  

“80 Skies” di Stefano Galli, Sunset Studio, Los Angeles

 
Stefano, c’è stato un momento durante l’infanzia o la prima giovinezza in cui la fotografia ti ha affascinato per la prima volta?
L’evento che mi ha avvicinato alla fotografia è stato il viaggio interrail che feci a diciannove anni insieme alla mia ragazza. Presi in prestito la macchinetta fotografica compatta di mio padre e partii alla volta di Germania, Austria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia e Croazia. Scattai una miriade di foto “turistiche”, ritraendo per lo più la mia ragazza, senza alcuna aspirazione artistica. Al mio ritorno, sviluppai i rullini e mi accorsi che la qualità delle foto era fuori dell’ordinario. I miei amici si complimentarono con me, equiparando i miei scatti a quelli di un fotografo professionista. Da allora iniziai a pensare alla fotografia come professione e non soltanto passione. Tornando ai primissimi ricordi d’infanzia, sono stato sempre circondato da foto di famiglia. In casa abbiamo una parete intera ricoperta di album fotografici che attraversano diverse generazioni, a partire da ritratti in bianco e nero dei miei bisnonni, passando per i miei nonni e, infine, genitori. Possediamo inoltre una vasta collezione di diapositive e filmati Super8.
 
Parlaci del tuo ultimo progetto 80 Skies. Com’è nata l’idea?
Ci sono una serie di progetti a cui lavoro simultaneamente. In uno di questi, chiamato Paesaggi Americani, cercavo di immortalare non le solite vedute bensì soggetti insoliti, piccoli dettagli, icone, insegne sulla strada. Un giorno scattai una foto a un’insegna con pacchetto di sigarette, sullo sfondo del cielo. Appena stampata la foto notai come, nell’angolo in alto a sinistra, c’era la scia di un aereo, inavvertitamente catturato dall’obiettivo. Mi affascinava la scia bianca prodotta dai gas di scarico dell’aeroplano, che era più voluminosa del velivolo stesso. Ho iniziato a sviluppare l’idea del progetto corrente, quale seguito alla mia esposizione intitolata Cars, all’interno di una trilogia sui mezzi di trasporto. Al contrario di Cars, un progetto estremamente specifico, incentrato su automobili d’epoca americane dagli anni ’60 agli ’80, in 80 Skies non potevo certo immortalare aerei vintage, visto che non solcano più il cielo. Inizialmente ho trascorso diverso tempo all’aeroporto LAX, cercando di fotografare gli aerei da vicino. Però, essendo d’indole nostalgica, non ero affascinato dai moderni Boeing 747. Ho tentato, perciò, un approccio diverso, aumentando notevolmente la distanza dai soggetti. Invece di appostarmi in prossimità della pista di decollo/atterraggio, me ne distanziai. Ho scattato alcune foto agli aerei in circuito di attesa, da Downtown L.A. e altre dalla mia abitazione, a poca distanza dalla medesima area. Ho sperimentato diversi angoli e inquadrature, oppure ricreato delle piccole storie che testimoniano delle manovre dell’aeroplano nel cielo. Nonostante in tutte le foto vi siano aerei, sebbene a volte minuscoli, il vero protagonista è il cielo nelle sue innumerevoli variazioni cromatiche, osservabili nell’arco delle giornata e in diverse condizioni atmosferiche. I “surreali” colori del cielo, specie i verdi e gialli, derivano dall’alta sensibilità della pellicola fotografica a diretto contatto con la forte luce solare. Non ho effettuato alcun ritocco. Il risultato dei miei appostamenti è stato un migliaio di foto, tra cui ne ho selezionate 80 in fase di editing. 
 
Quali sono gli artisti o fotografi che t’ispirano?
Per quanto riguarda il progetto corrente, nessun fotografo in particolare. Ho coltivato a lungo una passione per l’aviazione. Ho visto diversi documentari sul tema, in particolare sul progetto fallito del Concorde. Tra i fotografi, maggiormente d’ispirazione vi è l’italiano Luigi Ghirri. Le sue fotografie sono assimilabili alla poesia: durano poco, colgono l’attimo, il centesimo di secondo, però possiedono una grande forza, permettono di sognare. Per certi aspetti, una sorta di “omologo” statunitense di Ghirri è rappresentato da William Eggleston. Un altro artista-fotografo di riferimento è il tedesco Wolfgang Tillmans, che ha attraversato un periodo di fotografia astratta dai colori cangianti. C’è poi l’irlandese Tom Wood, conosciuto principalmente dagli addetti ai lavori, il quale però è specializzato in soggetti umani.  In generale, il cinema m’ispira molto. La mia formazione è cinematografica. Spesso metto in pausa i film e fotografo le singole inquadrature, così da poter apprezzare appieno il lavoro di certi direttori della fotografia. Tra i cineasti, considero Wim Wenders una fonte costante d’ispirazione, nonché Robby Müller, talentuoso direttore della fotografia olandese, associato più volte al regista tedesco.
 
In conclusione, parlaci della tua esperienza artistica a contatto con il cineasta danese, Lars Von Trier.
In procinto di laurearmi in Cinema all’Università di Torino, decisi di scrivere la tesi sul regista Lars Von Trier. Il materiale a disposizione in Italia era scarso, così decisi di proseguire la mia ricerca in Danimarca. Mi concentrai sugli aspetti tecnici di fotografia e montaggio, sia della corrente del Dogma 95, analizzando il film Idioti, ma soprattutto la sua prima trilogia e la serie televisiva The Kingdom-Il Regno. L’occasione di lavorare per Von Trier si presentò grazie all’incontro con un ragazzo che lavorava presso la Zentropa, casa di produzione fondata dallo stesso Lars insieme al produttore Peter A. Jensen. Lavorai come assistente alle luci e alla cinepresa, a stretto contatto con Von Trier, che si trovava in fase di pre-produzione di Antichrist. L’episodio che ricordo con maggior piacere risale a quando Lars mi chiese di proiettare 2001: Odissea nello spazio in pellicola da 35 mm. Per via della lunghezza, quest’ultima era suddivisa in quattro bobine e, ad ogni cambio, ci prendevamo una pausa. Von Trier mi rivelò la sua passione per il cinema italiano, in particolare per i lavori di Liliana Cavani. Era ossessionato dal film Il portiere di notte. Non solo conosceva l’intero cast a memoria, ma anche i nomi dei tecnici. Il fatto più sorprendente è che il regista danese possiede una conoscenza enciclopedica, che non si limita al registro artistico più alto, ma comprende anche i cosiddetti “cine-panettoni”. Lars Von Trier, persona riservata, umile ma estremamente saggia, mi ha dato il prezioso suggerimento di osservare i lavori di artisti che stimo per poi “copiarli” e rielaborarli a modo mio. Quell’esperienza molto intensa mi ha segnato profondamente.

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