(Ph Volodymyr Polotovskyi da Dreamstime.com)

Nell’ambito del cinquecentenario della morte di Leonardo da Vinci il Palazzo Reale di Milano ospita la mostra dal titolo “Il meraviglioso mondo della Natura. Una favola tra arte, mito e scienza”, a cura di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa.
Ad aprire il percorso espositivo c’è proprio lui, il genio del Rinascimento per antonomasia, con un bellissimo foglio del Codice Atlantico custodito nella Biblioteca Ambrosiana. Qui, accanto al disegno geometrico di alcune superfici, compare un gatto intento a lavarsi, quasi che Leonardo, distolto dal ben più aulico studio, come in un’istantanea abbia fissato sulla carta la normale attività di pulizia di un piccolo felino.

Che c’è di strano? Direte voi. Eppure qualcosa di nuovo c’è. Il foglio, non a caso, è messo a diretto confronto con un famoso codice tardogotico lombardo, l’Historia plantarum della Biblioteca Casanatense di Roma, una sorta di enciclopedia medica destinata al re di Boemia, Venceslao di Lussemburgo, ricca di centinaia di illustrazioni tratte dal mondo delle piante e degli animali. Ebbene, anche qui compare un gatto che si avvicina ad alcune forme di cacio, dalle quali sembra aver rubato una fetta. La descrizione sottostante spiega come parti del gatto, o delle sue secrezioni, siano utili alla vita quotidiana: i suoi testicoli, ad esempio, tritati con sale e affumicati, servono a proteggere le case dai fulmini, oppure gli escrementi, debitamente trattati, sono un utile rimedio quando si ingoia una spina. Il gatto in questione, però, se confrontato con quello leonardesco, appare “finto”, perché desunto dall’osservazione di un esemplare ormai morto. Ecco quindi ben chiara, ormai, l’enorme portata innovativa di Leonardo, che anziché guardare ad animali privi di vita, si sofferma ad ammirare esemplari vivi e vegeti, colti nell’immediatezza delle loro azioni.

Un altro confronto, nella sala successiva, tra il Piatto metallico con pesche di Giovanni Ambrogio Figino e la Canestra di frutta del Caravaggio. Pochi anni le separano, forse solo un paio, ma la distanza è enorme… Le sette pesche del primo dipinto, impeccabili come le foglie di vite disposte sul piatto di peltro, risultano tanto perfette quanto innaturali. Quanto reale, invece, appare il capolavoro caravaggesco, con le frutta prossime a marcire! Già nel 1960 Elio Baldacci, direttore dell’Istituto di Patologia Vegetale della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Milano, aveva notato i sintomi di alcune malattie delle piante da frutto, ancora oggi diffuse; i buchi sulla mela, ad esempio, sono provocati dal verme tipico di questo frutto (Cydia pomonella), mentre la ticchiolatura sulla foglia di pero e sulla pera stessa è dovuta all’attacco del fungo Fusicladium pyrorum.

Ma il clou della mostra milanese è costituito dalla ricostruzione, nella Sala delle Cariatidi, del seicentesco Ciclo di Orfeo, commissionato da Alessandro Visconti e poi trasferito nel 1877 al Palazzo Sormani, dove è divenuto noto come “Sala del Grechetto”. In realtà Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, non ha nulla a che vedere con tale ciclo pittorico, eseguito da più artisti, ma la qualità degli animali qui dipinti è talmente elevata che per molto tempo si è visto nel pittore genovese l’unico in grado di realizzare un’impresa tanto straordinaria.

Vediamo il perché. Composto di 23 tele, il ciclo vede riuniti più di 200 animali a grandezza naturale e pochissime figure umane, tra cui Orfeo e un Bacco giovane. Si tratta di un insieme spettacolare, sia per le dimensioni che per la quantità di specie animali e vegetali raffigurate. È evidente che l’intento qui non era quello di rappresentare una scena reale, collocabile in un ben preciso contesto ambientale e stagionale, quanto piuttosto la volontà di accostare nella stessa scena animali di varia provenienza geografica, selvatici e domestici, al fine di ricreare un Eden pullulante di vita. Una curiosità: la volpe artica e il ghiottone sono gli unici animali a rappresentanza del Nord America, ma considerando che il ciclo risale al Seicento, è lecito supporre che flora e fauna del nuovo continente non fossero propriamente alla portata degli artisti europei.


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