Tra i molti omaggi, convegni, mostre e riletture critiche dedicate ora al Leonardo da Vinci pittore ora allo scienziato, nel cinquecentenario della sua morte la Fondazione Stelline di Milano decide di guardare all’Ultima Cena, e lo fa con gli occhi di sei artisti di fama internazionale. Anish Kapoor, Robert Longo, Masbedo, Nicola Samorì, Wang Guangyi e Yue Minjun hanno accettato la sfida di Demetrio Paparoni, curatore della mostra, confrontandosi così con il capolavoro per antonomasia del genio del Rinascimento. Ne è derivata una sfida interessante, tesa soprattutto a dimostrare come l’opera di Leonardo continui a contaminare l’arte contemporanea. E non potrebbe essere altrimenti.

Pertanto, accanto a The Last Supper (New Religion) (2011) di Wang Guangyi e Untitled (2015) e Flayed II (2016) di Anish Kapoor, tutte le altre opere sono state realizzate ad hoc per la mostra milanese. Robert Longo con Untitled (Head of Christ) (2019) ha focalizzato l’attenzione su un ingigantito volto di Cristo, splendidamente realizzato a carboncino su carta intelata. Quasi due metri di altezza per indagare quel misto di accettazione, dolore, rassegnazione, delusione e chissà cos’altro, circoscritto in una cornice in foglia d’oro lavorata a mano e, in basso a sinistra (il lato del diavolo, non lo si dimentichi) un sacchetto in pelle con 30 monete d’argento.

ph. © Roberto Marossi, courtesy Fondazione Stelline

La parete rossa su cui si staglia l’opera è parte integrante della sua corretta fruizione, a ricordare il sangue sì, ma anche il vino offerto agli apostoli, ovvero l’Amore con cui ha voluto cancellare i peccati di un’umanità corrotta. Inoltre, come scrive Richard Milazzo, “il rosso con cui è dipinto il muro su cui il quadro è appeso (ripreso da uno dei rossi che si sono conservati nel dipinto di Leonardo) non enfatizza solo l’idea della Passione di Cristo, sottolinea anche il fatto che Giuda si è impiccato dopo aver compiuto il suo misfatto”. Va anche detto che la testa di Cristo, disegnata in scala maggiore rispetto all’originale, è stata eseguita su carta da archivio, per far sì che la sua grana faccia percepire l’immagine come una fotografia, esasperandone il chiaroscuro ed evidenziandone le crepe che solcano il volto. È fondamentale il fatto che tra le molte foto documentarie dell’Ultima Cena leonardesca Longo abbia optato per la versione post-restauro, ovvero un’immagine che non nasconde il deterioramento della superficie pittorica. Quel reticolo di crepe suggerisce allo spettatore ciò che l’opera ha subito, certamente a seguito del trascorrere dei secoli, ma anche per via della scelta “tecnica” operata da Leonardo, che come sappiamo non l’ha eseguita a fresco. Allo stesso tempo, come Paparoni ha sottolineato nel testo critico in catalogo, “in questo volto riconosciamo quello del primo uomo che Dio formò con il fango della terra, che qui sembra sgretolarsi sotto il peso della violenza”.

Oltre che nell’opera dell’artista americano, l’ultimo intervento di restauro è alla base di Madame Pinin (2017), il video di Masbedo che in 2’24” concentra l’attenzione sulle mani di Pinin Brambilla Barcilon, che per 22 anni ha lavorato al capolavoro vinciano. Non si tratta di un’intervista, in quanto volutamente privo di sonoro. La Pinin indica alcuni dettagli del restauro con movimenti lenti, sapienti. Non compare mai il volto della restauratrice; solo le mani, eleganti e diafane, e le bianche maniche del camice. Inoltre una leggera dominante verde toglie attualità al girato, a voler suggerire un filmato d’epoca.

Nicola Samorì ne L’Ultima cena (Interno assoluto) (2019), in olio e zolfo su rame, fa letteralmente offrire a Gesù il suo corpo ai commensali, raschiato dal supporto e adagiato, ripiegato sulla tavola. Privato della sua carne, Cristo si trasforma in una sagoma di luce, grazie alla scelta del supporto.
Yue Minjun in Digitalized Survival (2019) prende invece a modello una delle tante riproduzioni fotografiche dell’Ultima Cena di Leonardo, ma svuota lo spazio della presenza umana; Gesù e gli apostoli, infatti, vengono sostituiti da numeri segnati in rosso, senza un significato simbolico apparente (9, 5, 89, 34, 26, 3, 35, 7, 18, 2, 46, 4, 10). Ciò gli consente di mettere in evidenza “il senso di perdita di valori umani e culturali e lo spaesamento che ne consegue”.

ph. © Roberto Marossi, courtesy Fondazione Stelline

Completiamo con le opere di Wang Guangyi e Anish Kapoor. La prima, mai esposta prima in Occidente, è un polittico formato da 8 tele di grande formato. Basti pensare che la misura della base raggiunge i 16 metri. Per dichiarazione dello stesso autore, l’opera è concepita come un paesaggio: “Da lontano le sagome delle figure umane evocano quelle delle montagne nel paesaggio tradizionale cinese. Avvicinandosi un po’ si riconosce invece il celebre dipinto murale di Leonardo. Avvicinandosi ancora di più si possono individuare tracce di colore che, evocando il gocciolare della pioggia sulla parete di una casa, fanno riferimento a una tecnica di pittura cinese tradizionale, chiamata Wu lou hen”. I due lavori di Kapoor si rifanno alla serie già esposta a Roma, al MACRO, nel 2016-17. Flayed II è un vero e proprio bagno di sangue che impregna la tela, che diventa una sorta di Sindone, mentre Untitled è la visione macroscopica di una ferita.

Anche se non strettamente attinente all’esposizione, non si può non ricordare un precedente illustre, forse il più noto esempio di omaggio al genio di Leonardo: l’ultima serie The Last Supper, realizzata da Andy Warhol proprio per la Fondazione Stelline e qui esposta nella famosa mostra del 1987. Questo ed altri precedenti vengono analizzati nel catalogo (Skira Editore) che accompagna la mostra, da Salvador Dalí a Mary Beth Edelson, da Shusaku Arakawa a Hiroshi Sugimoto, da Andres Serrano a Vik Muniz.

La mostra “L’Ultima Cena dopo Leonardo. The Last Supper After Leonardo” resterà aperta al pubblico fino al 30 giugno 2019. Orari: martedì-domenica 10-20; chiuso lunedì. Fondazione Stelline, c.so Magenta 61, Milano
Info: www.fondazionestelline.it

ph. © Roberto Marossi, courtesy Fondazione Stelline


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