L’Istituto Italiano di Cultura in collaborazione con la UC Riverside ha dedicato al Medio Oriente e all’epocale migrazione dei suoi popoli la mostra fotografica “Passages” dell’artista Massimiliano Gatti, curata da Jonathan Green, direttore del California Museum of Photography.
L’esposizione raccoglie fotografie dell’artista raffiguranti oggetti rinvenuti in Siria e Iraq, terre di conflitti, guerre e migrazioni di cui suggerisce una personale chiave di lettura frutto di una sua analisi, ma anche di una sua profonda passione. Gatti attraverso i suoi lavori racconta come l’attuale fenomeno migratorio che sta interessando Europa e Medio Oriente sia in realtà un processo ciclico che coinvolge passato e presente.
 
Massimiliano Gatti nasce a Voghera e si laurea in Farmacia, ma abbandona la chimica per dedicarsi alla fotografia, diplomandosi al CFP Riccardo Bauer di Milano. La sua carriera decolla immediatamente quando decide di fondere il suo percorso artistico con l’archeologia partendo per la Siria, dove vive una serie di esperienze uniche che lo avvicinano al Medio Oriente tanto da farne da quel momento il centro del suo lavoro e della sua crescita professionale.
 
Massimiliano Gatti, artista e archeologo, com’è nato il suo interesse per il Medio Oriente e per l’archeologia?
Il passato e lo studio delle culture antiche non solo mi hanno sempre attratto, ma costituiscono anche uno dei punti cardine della mia ricerca artistica. Sono sempre stato incline a un’analisi retrospettiva del passato e quando il professor Daniele Morandi Bonacossi, direttore della missione archeologica dell’Università di Udine, mi propose di partecipare ad alcuni scavi in Siria, ho  immediatamente capito che quella sarebbe stata la mia strada. Nasce così la mia prima folgorante esperienza tra le terre mediorientali.
 
Lo scorso 15 settembre ha presentato in anteprima presso l’istituto Italiano di Cultura di Los Angeles una selezione di foto scattate in Syria e Iraq. Può spiegarci brevemente il filo narrativo dell’esposizione?
La mostra è intitolata “Passages” e vuole essere un’interpretazione di quello che sta succedendo in Medio Oriente. L’evento propone il progetto “In Superficie”, una serie di oggetti trovati appunto sulla superficie della terra durante una missione di ricognizione di siti archeologici nel nord Iraq che ho seguito con il gruppo del progetto Parten dell’Università di Udine. La terra, in questo caso, compie il gesto artistico di mettere tutto sullo stesso piano, da oggetti archeologici provenienti da epoche molto diverse a materiale bellico. Inoltre, a latere, estratti dal progetto Exodus, sono esposti anche ritratti di profughi siriani che sono passati da Milano e che ho potuto incontrare presso la Casa Suraya, un centro di accoglienza per famiglie. Questi ritratti, molto semplici da un punto di vista estetico, raccontano attraverso lo sguardo e l’espressione dei soggetti, l’esperienza della guerra e del viaggio verso la speranza che molti siriani stanno compiendo, ma che è poco capito e rispettato.
 
Può dirci qualcosa sulla collaborazione con la UC Riverside? Come giudica l’interesse per la fotografia della comunità angelina?
Bisogna premettere che, storicamente, la fotografia è un mezzo che in America e in particolar modo in California ha avuto un grande sviluppo ed è al centro dell’interesse culturale. La UC Riverside ha un museo, il California Museum of Photography, che si occupa di valorizzare la fotografia attraverso diversi eventi e mostre. Ho iniziato così a pensare alla mostra di Riverside con Jonathan Green, il direttore del museo che ha poi curato anche la mostra all’Istituto Italiano di Cultura, circa un anno fa quando ha visto i miei lavori. A Riverside invece sono stati esposti due video e quaranta stampe: il risultato è stato molto soddisfacente e la mostra ha avuto un bel riscontro di pubblico.
 
Progetti per il futuro?
Sto lavorando a una mostra che farò nella galleria RBContemporary di Milano che sta seguendo il mio lavoro da anni. Inoltre, ho in cantiere un nuovo progetto fotografico proprio qui a Los Angeles e precisamente a Westwood sulla comunità iraniana, con l’appoggio di Fariba Zarinebaf, insegnante alla UC Riverside.
 

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