Ha vinto a sorpresa la Palma d’oro della 70esima edizione del Festival internazionale del film l’elegante, sorprendente commedia nera “The Square” di Ruben Ostlund di cui la giuria, presieduta da Pedro Almodovar, ha unanimemente riconosciuto la forza e l’ironia venata di sarcasmo.

Il film, simbolo delle contraddizioni della nostra epoca dominata dalle deliranti interpretazioni dell’arte contemporanea supportata da un fazioso sistema comunicativo, racconta in modo tragicomico le disavventure di Christian (un magnifico Claes Bans sempre in scena), molto sicuro di sé, del suo potere e della sua seduzione, che per una serie di piccoli eventi che lo investono mano a mano come uno sciame sismico, viene destabilizzato e obbligato a rimettersi in questione. 

Intelligente e molto cerebrale, provocatorio,  erratico, abrasivo, ma nel contempo divertente e surreale, il film  persegue tesi e obiettivi precisi: “The Square”, nella sua apparente svagatezza, solleva questioni importanti sulla società mediatica e sul sistema dell’arte, “molto contemporaneo, l’ha definito  Almodovar, “con la sua critica acerba del politicamente corretto”.

La trama: al Museo di Arte contemporanea di Stoccolma, di cui  Christian è il curatore, sta per  inaugurarsi l’opera concettuale di un’artista argentina The Square, un quadrato luminoso ritagliato sul selciato davanti al museo e dichiarato territorio libero, uno spazio al cui interno “tutti possono chiedere aiuto ed essere solidali”.  Ma nelle due ore e 20 del film i fatti che succedono sembrano del tutto smentire l’etica e le buone intenzioni dell’assunto. Fatti e fatterelli costellano questo  grottesco e pazzo film, che non perde mai di vista i suoi fini: al curatore rubano portafogli e telefono, che per tentare di recuperarli si avventura quasi per gioco in zone pericolose dando il via alla destrutturazione del suo mondo e infine della sua vita.

Intanto si assiste a una girandola di fatti e invenzioni: un uomo affetto dalla sindrome di Tourrette interrompe in continuazione la conversazione al Museo, un video finto con una bambina che salta su una bomba scatena roventi polemiche, una giornalista americana dopo essere andata a letto con Christian vuole conservarne lo sperma, c’è perfino un gorilla in salotto fino ad arrivare alla scena–clou del film quando, durante il banchetto-charity, irrompe per l’organizzata performance, l’uomo-bestia del video che, come nell’Angelo sterminatore di Bunuel, si scatena  e scatena le pulsioni selvagge nascoste sotto l’elegante perbenismo borghese.

Il regista adotta il registro della commedia demenziale surreale per dire cose importanti: il confronto minaccioso con il bambino venuto a reclamare la restituzione del suo onore per essere stato accusato di avergli rubato il portafogli e il telefono la dice lunga ad esempio sulle differenze sociali e sul latente conflitto di classe presente anche nella civilissima Svezia. 

Ruben Ostlund che ha vinto due anni fa la sezione Un certain Regard con “Forza maggiore”, ritirando l’ambito Palmarès ha invitato tutta la sala ad alzarsi e partecipare alla sua gioia in una sorta di happening collettivo che ha ricordato da vicino  lo spirito del film.   

Gran Premio della Giuria  a “ 120 Battements par minute” (120 battiti al minuto) del francese di origine marocchina Robin Campillo, film sull’attivismo gay contro l’AIDS nella Francia anni ’90. Il regista ha messo nella storia di questi ragazzi la sua esperienza di militante nel gruppo Act-Up. Azioni dimostrative, convivenza e  difficoltà tra gruppi e spiriti diversi, storie d’amore, drammi, malattia sono al centro di questo film collettivo dato per vincente fino all’ultimo momento. L’opera, che ha molto emozionato  il presidente della Giuria, è un omaggio a chi è morto, ci ha tenuto ad aggiungere il regista- ma anche a chi è sopravvissuto e avendo ancora molto coraggio ha messo la propria vita in pericolo  per l’attivismo. 

Il premio della Giuria è andato a Loveless del regista russo Andrey Zvyagintsev, già Leone d’oro a Venezia per Il Ritorno. Il film racconta la triste storia di un ragazzino testimone dei  violenti litigi  tra i genitori che si stanno separando. Un ritratto di famiglia e di un Paese, la Russia, in profonda crisi politica e sociale. Due ex aequo per il Premio alla sceneggiatura attribuiti al greco Yorgos Lanthimos   (The killing of a sacred deer) e alla britannica  Lynne Ramsay, (You were never really here).  Lanthimos, regista estremo e ambizioso,  ha messo in scena  un  racconto  intriso di sottile violenza che man mano si trasforma in un incubo per la bella famiglia di due medici,  Colin Farrel  nelle vesti di un barbuto chirurgo, la moglie (Nicole Kidman) a capo di una clinica oculistica e i  due giovani figli. Tutto deflagra quando nella vita del chirurgo si insinua la presenza di Martin, un sedicenne il cui padre è morto  sul  suo tavolo operatorio.

Il Premio per la migliore regia  a Sofia Coppola per il film The Beguiled, è la prima volta che una donna riceve questo prestigioso riconoscimento. Sofia, che non era presente, in un messaggio letto in sala dalla regista  Maren Ade, ha ringraziato la giuria per l’onore del premio e il festival per averla selezionata, ha quindi ringraziato il fratello Roman, il padre per averle insegnato l’amore per il cinema e la madre per averla incoraggiata ad essere un’artista. The Beguiled, l’inganno è ambientato in un collegio femminile confederato durante la Guerra civile americana. Nel collegio viene accolto  un soldato dell’Unione ferito, John McBurney,  che viene accudito dalle donne del college, le seduce scatenando una reazione a catena di desideri e morte. Farrell eredita il ruolo che fu di Clint Eastwood nella versione del ’72.

La giuria ha deciso di attribuire un premio per il 70esimo anniversario del Festival a Nicole Kidman per il suo contributo all’edizione,  quattro film in selezione. Premio d’interpretazione per la migliore attrice a Diane Kruger. Ha conquistato la giuria il suo ruolo  nel non rimarchevole  film di Fatih Akin “In the fade”, una madre  distrutta dal dolore, in cerca di vendetta per la morte del marito e del figlio vittime di una bomba neo-nazista.

Riconoscimento come miglior attore a Joaquin Phoenix, che, talmente sorpreso per il premio, si è dovuto scusare di riceverlo, nella compunta messinscena cannoise, con un paio di  basket ai piedi. L’attore americano ha fatto molta strada dai tempi de Il Gladiatore, già miglior attore in The master di Anderson alla  Biennale di  Venezia. Nel film di Lynne Ramsay  “You were never really here”, Phoenix è un  depresso ex- agente  dell’FBI  che si adopera per ritrovare  ragazzine scappate di casa. Nell’ ultimo caso è coinvolto in un traffico sessuale di minorenni dove  farà di tutto per salvare la figlia di un senatore più preoccupato per le sue elezioni che per la sorte della figlia. Trasformato in un  fantasma erratico, traumatizzato dalle ferite dell’infanzia, violento  e alla ricerca di una qualsiasi redenzione, la pelle costellata di cicatrici, trascina la sua  pesante carcassa e un martello sulla spalla  in questo violentissimo  polar ellittico e stilizzato.

Cosa ricorderemo di questa 70esima edizione? Molti buoni film, ma non il capolavoro assoluto, una concentrazione di divi e registi e gente del cinema mai vista sulla Croisette,  una regia equilibrata e democratica  che ha elaborato la lista dei premi  privilegiando  le donne, due interpreti Nicole Kidman e Diane Kruger, una regista, Sofia Coppola e Lynne Ramsay per la sceneggiatura.

 La giuria era così composta: la regista tedesca Maren Ade, l’attrice e regista Agnès Jaoui,l’attrice cinese Fan Binbing, i divi americani Jessica Chastain e Will Smith, i registi Paolo Sorrentino e il coreano Park Chan-Wook, il compositore francese Gabriel Yared, il Presidente Pedro Almodovar. Madrina della manifestazione Monica Bellucci.

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