Performance artistica difficilmente collocabile come genere, “Bestie di scena”, ideato e diretto da Emma Dante, è un esperimento radicale in cui teatro e danza si confondono e si intrecciano imponendo la nudità del corpo come linguaggio primordiale e universale.
All’origine riflessione teatrale sul lavoro dell’attore, lo spettacolo sconfina nella riflessione filosofica come interrogazione sull’umana esistenza.
Perché quei corpi nudi in scena, fragili e impotenti, governati da un crudele deus ex –machina siamo tutti noi che stiamo a guardarli, identificandoci e rispecchiandoci nelle loro paure, nelle fragilità, nelle loro regressioni. Così che il teatro diviene lo specchio del nostro umano sentire attraverso un linguaggio estremo centrato su corpi sottoposti ad uno sforzo fisico da fiaccare chiunque.
C’è in Bestie di scena una soggettivazione radicale del corpo che, nel movimento, sincrono o scomposto che sia, assume il quoziente di mistero, di non senso, di estraneità che è alla radice del suo modo di essere e del suo stesso funzionamento. La funzione del corpo diviene luogo di invenzione, non attraverso la voce, quasi inesistente, si sentono solo urla e sonorità incoerenti, ma attraverso il movimento e la messa in scena che il teatro rende possibile. Corpi parlanti in cui il corpo dell’attore si offre come luogo di enunciazione.
“Bestie di scena”, (in origine avrebbe dovuto intitolarsi Animali da palcoscenico), atto unico prodotto dal Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, è stato l’evento per eccellenza del Festival del Teatro di Avignone 2017 e continua a macinare successi e controversie nei teatri italiani.
Spettacolo complesso e potente, spiazzante, innovativo, è “una creazione che traccia il viaggio di un individuo alla ricerca di se stesso attraverso la perdita di tutto, della parola, del costume dietro cui nascondersi fino a raggiungere uno stadio in cui sia solamente il corpo a pensare- spiega la regista siciliana- “volevo raccontare il lavoro dell’attore, la sua fatica, la sua necessità, il suo abbandono totale fino alla perdita della vergogna”.
All’inizio, mentre gli spettatori entrano in sala e sono in cerca del loro posto, sul palco vuoto, una scatola nera delimitata da un fondale e sei quinte, vediamo i giovani attori in maglietta, pantaloni e scarpe da ginnastica impegnati in un training teatrale sincronizzato, corrono, si affaticano, sudano in una performance dal ritmo sempre più vorticoso e spiazzante fino a quando sembrano rinunciare alla loro volontà e si consegnano nudi agli spettatori lasciando lentamente cadere i loro abiti sul proscenio.
E’ la resa totale, la rinuncia alla maschera, a ogni orpello, rimangono lì nudi, allineati di fronte al pubblico, sudati, fragili, tremanti, si specchiano negli occhi degli spettatori, anch’essi penetrati da un’inquietudine , da un sottile disagio.
Ne viene fuori una coreografia che non parla affatto di peccato, non c’è sessualità nè erotismo nei loro gesti, nei loro sguardi supplici, disarmati, ma piuttosto un senso di pena, di smarrimento, nascondono come possono i sessi, perfino gli occhi, consapevoli forse del senso di tristezza che emana dai loro corpi esposti senza pudore allo sguardo altrui. Sono una piccola comunità in fuga, profughi sfuggiti a chissà quali tragedie, sconvolgimenti epocali, giunti come tanti Adamo ed Eva scacciati da un ipotetico paradiso terrestre, avvinghiati, solidali, ma inermi, esposti alle intemperie e alla vergogna.
Un demiurgo sconosciuto e crudele da dietro le quinte fa arrivare una tanica a cui si abbeverano come animali esausti per poi espellere l’acqua con uno sputo, viene lanciato un telo rosa con cui cercano di coprirsi, ma subito dopo esplodono petardi che rischiano di colpirli e allora rimane solo la paura, crolla completamente il senso del pudore.
Il palco diviene il luogo dove questa piccola comunità di creature perse intesse poveri brandelli di storie, si illude di vivere attraverso oggetti, sbarre, cibi informi, bambole, una spada, palloni, noccioline, stracci, scope che piovono addosso, tutti elementi che provocano ogni volta paura, confusione, balli e urla, litigi e seduzioni, risate e combattimenti. Non c’è ruolo né storia, né personaggi : nel grado zero della presenza scenica si rappresenta ormai solo la vulnerabilità e la miseria della condizione umana, il gioco, la follia, l’istinto.
Ogni corpo cerca di mettere in mostra la propria individualità, le proprie capacità nel vano tentativo di esistere, si balla al canto di una minuscola bambola meccanica, al suono lontano di un carillon, sulle note di Only You dei Platters due corpi si intrecciano in un romantico ballo a due, gli altri si animano, si confondono con gli stimoli, alcuni attori regrediscono a uno stadio primordiale, si diventa o ridiventa scimmie.
Rinunciando man mano all’assunto iniziale di racconto della fatica, della pena dell’attore, Emma Dante, attraverso questi corpi spaesati, succubi, dolenti, ma potentemente istintivi e vitali, ci fa riflettere su ciò che resta dell’umanità, un cumulo di stracci, di macerie, un percorso senza via d’uscita. Splendida performance attoriale con punte di eccellenza, citiamo per tutti la prova di Viola Carinci che balla sulle mezze punte al suono del carillon con grazia ed espressività sublimi. Con Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Alessandra Fazzino, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli, Daniela Macaluso, Gabriele Gugliara. Regia ed elementi scenici di Emma Dante. Luci di Cristian Zucaro.