Vento d’oriente al Festival  del film di Cannes 2019. Vince la Palma d’oro Parasite del regista sudcoreano Bong Joon Ho.  Gran  Premio della Giuria  alla senegalese Mati Diop,  Premio della  giuria ex aequo a ‘Les Misérables’ di Ladj Ly e ‘Bacurau’ di Mendonca e Dornelles. . Migliori attori Antonio Banderas e Emily Beecham. Nessun premio all’unico film italiano in concorso Il  Traditore  di Marco Bellocchio.

Dopo la Palma giapponese dello scorso anno, il maggior premio  è andato  quest’anno a Parasite del regista sudcoreano Bong Joon Ho. Elegante e scabroso  nel contempo, il film parla di povertà e disperazione,   i protagonisti  sono furbi e  intraprendenti, ma  immessi  in un sistema che non ha pietà per gli ultimi,  si raccontano diseguaglianze sociali e  affinità umane, una guerra tra poveri che risulterà fatale per tutti,  perfino per i ricchi  privilegiati . Un film sulla lotta di classe e sulla precarietà, dove ciò che  colpisce  in particolare è la struttura intelligente del  racconto, in cui si parla di  un mondo tagliato da un invisibile contratto sociale. Opera solida, coesa dall’inizio alla fine, visivamente ricercata, il film di Bong Joon-Ho è sempre al servizio del tema che sceglie di mettere in scena con amara consapevolezza, spaziando tra commedia, dramma e thriller.

Gran Premio della Giuria ad  Atlantique della regista franco- senegalese Mati Diop, sul dramma di chi si imbarca per cercare un futuro migliore in Europa.  Il film  racconta l’allucinata e vana attesa di una giovane donna il cui innamorato è partito da Dakar insieme ai compagni di lavoro finiti tutti annegati  in fondo al mare.  A due film è invece  andato il Premio della giuria consegnato da Michael Moore , che ha ricordato come “l’arte in periodi cupi  ha aiutato a non perdere la speranza”. Il riconoscimento ex aequo è andato al francese Les Misérables e al brasiliano Bacurau,  firmato quest’ultimo  da Kleber Mendonca  e Juliano Dornelles.  

Les Misérables è l’opera prima del regista Ladj Ly, classe 1980, francese di origine maliana. Qui la banlieau parigina è raccontata attraverso gli occhi di tre poliziotti di una brigata anti crimine di Montfermeil, una giornata con loro attraverso le tensioni  che si scatenano quando un ragazzino del quartiere ruba un leoncino a un circo di gitani. Valgono ancora, più di 150 anni dopo, le considerazioni di Victor  Hugo, molto citato in questa edizione, sugli strati più poveri della società: “Non esistono erbe cattive o uomini cattivi, esistono solo cattivi  coltivatori”.  Premio per la migliore regia  ai fratelli  Dardenne, già due volte Palma d’oro, per  Le jeune Ahmed  dove raccontano il percorso di radicalizzazione di un tredicenne islamico. Antonio Banderas ha  trionfato come  miglior attore per Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar.  

Alla loro ottava collaborazione, il Maestro spagnolo ha consegnato all’amico di sempre il ruolo del  suo alter ego, Salvador Mallo,  un regista che lotta con la depressione e la fragilità fisica.  L’attore  ha dedicato il premio ad Almodovar, che tutti o quasi ritenevano degno della Palma.  Poco convincente invece la Palma della migliore attrice all’’inglese Emily Beecham, protagonista del film  Little Joe,  dove  interpreta una scienziata fitogenetica.  Premio per la miglior sceneggiatura a Céline Sciamma  per Il ritratto della ragazza  in fiamme,  il  film, tutto al femminile  racconta l’amore proibito fra due donne nella Francia del 1770. 

Menzione speciale della giuria al regista-attore palestinese Elia Suleiman che con This must be heaven firma un surreale  viaggio dalla sua Nazareth a New York passando per Parigi alla ricerca di finanziamenti per il suo nuovo film.  “Abbiamo preso decisioni artistiche e non politiche – ha commentato il presidente di giuria Alejandro Gonzalez Inarritu al termine della cerimonia – ma posso dire che guardando i Palmarès, tutti i film premiati trattano il tema della giustizia e dell’ ingiustizia sociale. Il cinema cerca di elevare la coscienza del mondo e l’ambizione dell’arte si riflette nel sentire, attraverso le frustrazioni e gli incubi del nostro tempo, quale può essere il futuro “.  La 72esima edizione, una delle più glamour per la fitta concentrazione sulla Croisette di divi , registi e gente del cinema  provenienti da tutto il pianeta,  è stata una competizione appassionante  anche per la presenza  dei registi più grandi del mondo che hanno realizzato  ottimi film. 

Accanto A Hidden Life di Terrence Malick, The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch, Once Upon a Time… in Hollywood di Quentin  Tarantino,  Il traditore di Marco  Bellocchio… Salutato  da 13 minuti di applausi alla proiezione ufficiale  del Festival,  Il Traditore è un film, unico italiano in concorso,  che , malgrado  non sia stato gratificato da alcun premio maggiore, si prevede  avrà molto successo nelle sale internazionali. Un grande affresco su  vent’anni di mafia raccontati attraverso la lente di Tommaso Buscetta  detto il  “boss dei due mondi”,  storia di famiglie, naturali e mafiose,  di  tradimenti, di padri e di  figli massacrati.  

“Il protagonista è un traditore, ha fatto una scelta molto dolorosa, ma il suo è anche un rifiuto  nei confronti di un certo tipo di mafia-  ha sottolineato   Marco Bellocchio   in conferenza stampa,  ammettendo  di essere stato affascinato  dal personaggio  pur cercando di nulla concedere all’empatia  nei  confronti di un individuo  che  rimane comunque un criminale. Ed in questo consiste anche la tragedia e la complessità  del personaggio,  amante della bella vita , lontano dall’ipocrito moralismo mafioso; perfino nella  lingua che usa , un misto  di  siciliano, portoghese, italiano,  sembra ci sia il desiderio di marcare una differenza tra sé e gli altri criminali. 

Anche nel  tradimento dell’organizzazione a cui appartiene  appare del resto  molto più complesso  dal punto di vista psicologico, degli  altri collaboratori di giustizia, come  Totuccio Contorno ad esempio, interpretato da Luigi Lo Cascio, un pentito che resta però tutto interno alla logica della vendetta mafiosa.  Le categorie del tradimento e della famiglia, indissolubilmente connesse, ricapitolano l’ identità mafiosa e il significato della storia raccontata da Bellocchio, che si muove continuamente su  due registri: da una parte  c’è la ricostruzione  puntuale e accurata di vent’anni di storia mafiosa,  si parte, è il  1980,  dalla guerra tra Stefano Bontate e Totò Riina, passando per il maxiprocesso e giungendo fino al processo Andreotti e alla morte di Buscetta  nel 2000 ,  dall’altra il regista scava dentro quella  tragica  vicenda individuale e collettiva  trovando una chiave che gli consente di riportare il racconto sul terreno della sua poetica attraverso il tema centrale della famiglia, caratteristico del suo cinema.   

Pierfrancesco Favino restituisce  magnificamente,  attraverso un  accurato lavoro di scavo e attenzione ai minimi dettagli, (la fisicità ad esempio  o l’eleganza più finta che vera di Buscetta), tutta la complessità  di  un uomo  controverso, sempre in fuga  anche da se stesso,  feroce, coraggioso,  leale e calcolatore nel contempo. E’ rimasto fuori dai premi anche il molto atteso  film di Quentin  Tarantino, Once Upon A Time…In Hollywood, giunto in concorso a Cannes all’ultimo momento.  Il regista statunitense  è tornato sulla  Croisette 10 anni dopo Bastardi senza gloria e a 25 anni dalla Palma d’oro presa per Pulp Fiction. Quello che in un primo tempo sembrava il cuore del film,  la strage di Sharon Tate e dei suoi quattro amici a Bel Air in California, anno 1969, compiuta da Charles Manson e dai seguaci della sua setta, è solo uno dei fili del film-omaggio alla storia del Cinema e si intreccia alle gesta di Brad Pitt, che nel sottobosco di Hollywood, fa la controfigura e lo stuntman e a quelle del suo amico Leonardo Di Caprio, attore di film western in tv che vuole sfondare nella mecca del cinema.





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