Faccio in tempo a parlarvi di agenda? Certo, avrei potuto farlo prima! Considerato l’uso diffuso della parola specialmente negli ultimi tempi. 
 
Nella pratica noi sappiamo che cosa sia l’agenda: un libro, un quaderno, un brogliaccio, dove vengono annotati gli appuntamenti, le date importanti, le cose da fare; oppure dove sono fissate quelle annotazioni di carattere personale di cui vogliamo lasciare memoria allo scopo di poter ricostruire in futuro la nostra storia personale.
 
Questa seconda utilizzazione avvicina l’agenda a quell’altro libretto che chiamiamo anche diario.
Per l’esperienza che ne abbiamo, potremmo dire allora che l’Agenda (quella che in questo inizio d’anno abbiamo ricevuto in dono specialmente da Banche, Assicurazioni, Uffici di rappresentanza, Ditte e Società di servizi) è più professionale, destinata agli adulti, o per lo più a persone di un certo impegno e responsabilità. 
 
Il Diario, invece, scolari e studenti ce l’hanno nella cartella scolastica dove annotano, insieme agli impegni giornalieri di scuola, anche i compiti assegnati, da svolgere a casa. Le due cose potrebbero però ridursi alla medesima funzione, compreso anche il lavorio quotidiano di ricerca interiore fatto giorno per giorno attraverso la registrazione del vissuto: incontri, emozioni, fantasie, riflessioni, decisioni, annotazioni per memoria, ecc. 
 
Diario” – forse già ne abbiamo parlato in altre occasioni – è un aggettivo (poi sostantivato: “il diario”) derivato da dies = giorno
 
Mentre “agenda” è un’antica forma di participio (perdutasi nella lingua italiana!) che la grammatica latina ci fa chiamare gerundivo. In particolare: agenda, dal verbo ago = faccio, è il nominativo plurale neutro del gerundivo latino, e significa “le cose che debbono essere fatte”. 
 
Perciò la parola, divenuta in italiano, come nome del libriccino, un sostantivo femminile singolare, mette in evidenza le azioni programmate, le scadenze, tutte cose che, una volta svolte, diventano “fatte” (i fatti, gli avvenimenti); cioè “acta” (sempre da “ago”), per dirlo con la corrispondente parola latina. 
 
Sia il politico che lo scolaro, quindi, a seconda che chiamino agenda oppure diario il loro libro immaginario delle cose da farsi, o il brogliaccio concreto su cui le annotano, si riferiscono ad un programma definito di “compiti”. Ma la parola “compiti” non significa necessariamente: “cose assegnate da altri”. 
 
Ma più esattamente: “cose che devono essere portate a termine (compiute)”. In francese la parola per indicare la stessa cosa è: “devoirs” (calco delle parole italiane: doveri o debiti; cioè “cose dovute, che si devono fare o dare in restituzione”). 
 
In conclusione: solo chi non conosce la portata delle parole (specialmente quando c’è di mezzo la traduzione da una lingua all’altra) non capisce. 
Potenza della trasparenza!  Mentre chi è in malafede fa finta di non capire. 

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