“Il Trovatore”, opera di Giuseppe Verdi, assieme a “La Traviata” e “Rigoletto” ha segnato profondamente la cultura del XIX secolo. L’amore, l’odio, la vendetta, nella co-produzione firmata Opéra Royal de Wallonie-Liège e Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, si dipanano seguendo la regia di Stefano Vizioli, che abbiamo intervistato.
Dal punto di vista registico, come marcare il significato e la differenza de “Il Trovatore” rispetto alle altre due opere della cosiddetta “trilogia popolare”?
Trovatore è fra le opere più difficili che ho messo in scena, un’opera che ha quattro protagonisti dove, al contrario delle due “sorelle” Rigoletto e Traviata, le azioni sono raccontate e raramente vissute: è un testo carico di contraddizioni, pervaso da un sentimento di amori dolorosi e infelici, un’opera di perdenti dove nessuno riesce a trovare una risoluzione alla propria ansia emotiva.
L’utopia del Trovatore è l’utopia del cuore che si scontra con la realtà. Un grandissimo aiuto me lo ha dato la lettura e lo studio del testo originale di Gutierrez, che dà ulteriori stimoli per approfondire e scavare dentro i personaggi, e rivela note molto interessanti per definire i rispettivi caratteri. Queste contraddizioni caratteriali le amo proprio in quanto esprimono contrasti enormi tra la musica e la definizione considerata a torto un po’ stereotipa dei personaggi. Da pianista poi ho la chance di leggere lo spartito al pianoforte e scoprire quante intuizioni “registiche” offre Verdi nelle indicazioni agogiche, un ulteriore aiuto per entrare nelle pieghe più riposte di questo capolavoro.
Come rendere il più possibile visibili i tanti sentimenti che connotano l’opera?
Questo spettacolo nasce nel 2009 e ancora viene richiesto in giro, l’anno prossimo approda in Spagna, ogni volta la sfida è trovare nel nuovo cast e nel rapporto col direttore d’orchestra nuovi stimoli e opportunità di riflessioni diverse: non amo mettere il “pilota automatico” ma mi lascio ogni volta anche coinvolgere dalla fisicità e dalle intuizioni di chi mi trovo di fronte.
Il lavoro più sottile è quello di individuare la rete di contraddizioni dei personaggi: la trama è piuttosto complicata proprio perché le azioni in Trovatore sono raccontate ed evocate più che vissute “in diretta”, ma detto ciò è importante una certa fedeltà ai suggerimenti della “parola scenica” verdiana: i tempi scenici sono legati ad una totale aderenza al testo, si canta non solo con la voce, ma con gli occhi, con la postura, col sesso, è fondamentale che ogni cantante conosca a memoria non la propria parte, ma l’intero testo dell’opera, per comprendere le ragioni emotive e direi fisiologiche del proprio ruolo, e trovare quindi l’”accento” giusto in un gioco scenico sempremobile, attento, sorvegliato e partecipe.
Il rischio quando affronto Verdi è una certa ansia da prestazione che rende alcuni cantanti riottosi ad un più approfondito rapporto con il testo, e a volte la domanda che mi viene rivolta, dopo ore di spiegazione sul concetto dell’opera, è “sì maestro, ma io la mia aria dove la canto?”. Talvolta ho come l’impressione che alcuni cantanti non sappiano nemmeno la trama dell’opera, ma abbiano studiato solo la propria parte, magari col pennarello evidenziatore, in un disinvolto disinteresse delle motivazioni che portano un personaggio ad essere parte di una intera concezione drammaturgica, creata e voluta principalmente dal compositore stesso: con Verdi siamo di fronte ad un musicista “regista” delle proprie opere, basta leggere le indicazioni agogiche dello spartito e l’epistolario: le Disposizioni Sceniche di opere come Simon Boccanegra o Otello sono autentici libri di regia ancor oggi insuperati per intuizioni musicali, drammaturgiche e poetiche.
Quale personaggio de “Il Trovatore” preferisce?
Amo Manrico, è un personaggio straordinario perché è un perdente nato, un poeta, un romantico, un musicista, un soldato, è continuamente in dubbio sulle sue sicurezze, non sa di chi è figlio, entra in scena dubitando subito dell’amore di Leonora. Non riesce mai a stare con le donne del suo destino. È un uomo di grande solitudine, di grande bellezza emozionale. I perdenti mi piacciono, provo compassione per loro. Forse in modo troppo prevedibile si è sempre visto Manrico come una sorta di “superman”, dall’acuto insolente e muscolare, invece è un uomo che perde su tutti i fronti, lacerato da dubbi e incertezze. E tutti perdono, in quest’opera: Azucena, Manrico, Leonora, il Conte di Luna.
Che cosa dei personaggi cerca in modo particolare di restituire al pubblico con la sua direzione?
Questo senso di sconfitta, di incertezza, questo essere tanti ruoli insieme, questa meravigliosa incoerenza emozionale e psicologica che porta ogni personaggio ad essere un prisma di emozioni contraddittorie, ripeto che in questo mi ha aiutato enormemente un approfondito studio della fonte originale di Gutierrez, senza la quale molte intuizioni sarebbero mancate.
Nella sua già lunga carriera quale regia ricorda come una particolare sfida?
Ogni regia è sempre una sfida e la preparazione parte da almeno un anno prima della sua realizzazione in scena: recentemente ho affrontato le Prophète di Meyerbeer, un’opera difficile sia per la drammaturgia violenta ed a volte soffocante, sia per l’architettura formale del Grand Opera a cui appartiene, quindi grandi cori, balletto, trio di protagonisti dove accanto al virtuosismo vocale bisognava unire un’estrema partecipazione fisica e gestuale. Ma è forse nelle mie “scorribande” interculturali delle esperienze come Opera Bhutan dove mi sono molto messo in gioco, anche fisicamente: portare Acis and Galatea di Handel nel cuore dell’Himalaya confrontando il linguaggio della musica barocca con la tradizione performativa di quel lontano paese è stata non solo un’esperienza artistica esaltante, ma un autentico viaggio esistenziale.
Quattro tesi di laurea sono state redatte sulle sue produzioni: una bella soddisfazione, immagino…
È motivo di orgoglio e sono molto onorato, in due casi i laureandi facevano parte dello spettacolo che stavo montando ed evidentemente l’entusiasmo e il coinvolgimento “ in diretta” li ha spronati a scegliere come tesi della loro laurea l’opera di cui facevano parte: leggendo queste tesi non poche volte ho trovato stimoli di riflessione ed analisi che hanno ulteriormente aperto la mia mente a prospettive e angolazioni diverse ed affascinanti.
Difficile concepire una messa in scena di opere così celebri?
Sì, perché c’è sempre il confronto con edizioni prestigiose che facilmente possono essere trovate su you tube o in streaming e che virtualmente “appartengono” ormai alla consapevolezza dello spettatore, che oggi ha molta più facilità di accesso di prima a sapere cosa succede nel mondo in tempo reale. Io la Traviata di Visconti la posso conoscere per quello che ho letto, ma non potrò mai sapere com’era realmente in quanto non c’è traccia video alcuna di quello spettacolo, di cui ci restano le foto o la registrazione audio o le recensioni, ora è tutto molto più accessibile quindi la sfida si moltiplica nella ricerca di una visione originale o quanto meno personale.
Che cosa aspettarsi dal suo “Trovatore”?
Trovatore come tutti i capolavori è un’opera immortale, mi chiedo sempre cosa ancora dopo più di 150 anni riesca come un filo rosso ad emozionare il pubblico di oggi come quello del Teatro Apollo alla sua prima apparizione, io stesso non mi stanco mai di sentirla di provarla e di amarla. Incondizionatamente, anzi credo che l’amore dipenda dal fatto che questo titolo appartenga ad una sorta di nostro Dna culturale Ho scelto con lo scenografo e costumista Ciammarughi una scena severa e mobile, che permetta ai solisti di attingere alla propria energia piuttosto che a un decorativismo scenico e passivo, in grandi spazi vuoti si esalta maggiormente la complessità dei caratteri, le loro contraddizioni, le loro ansie e paure, e lo spazio si riempie di energia dell’interprete.
Non dimentichiamo che è anche un’opera sulla diversità che appare pericolosa, nemica, ostile all’ordine delle cose: gli zingari, le maghe, i “trovatori”, fanno si che i “diversi” vadano allontanati se non proprio eliminati, niente di nuovo con i nostri giorni. Da un punto di vista scenografico ho cercato di eliminare quanto possibile la separazione fra una scena e l’altra per concatenare le azioni senza soluzione di continuità e inchiodare lo spettatore alla tensione emotiva sprigionata dallo spartito.
Il pubblico dell’opera è cambiato negli anni secondo la sua percezione?
Nella mia veste di direttore artistico del teatro Verdi di Pisa, ruolo che ricopro dalla fine del 2016, nonché nel confronto accademico universitario dove spesso sono invitato per lectures e incontri, ho dovuto molto studiare il “fenomeno Pubblico”: è importantissima la comunicazione, gli incontri con i giovani, uscire dalle auguste mura autoreferenziali del Teatro per andare nelle scuole e portare già alle elementari la passione per un genere che comunque appartiene al nostro dna culturale: l’opera lirica resta un genere popolare e fino a pochi anni fa si frequentava con la stessa passionalità che hanno i tifosi allo stadio. Certo oggi l’offerta è enorme, e su internet si può stare comodamente a casa e vedere sullo schermo i propri beniamini senza molta fatica. Ma, senza falsa retorica, nulla può restituire la magia del rito di una sala che va al buio, di un sipario che si apre su un mistero, dell’esecuzione dal vivo. Una politica anche di prezzi abbordabili per giovani e gli anziani è importante, aprire le prove è altrettanto utile per capire che per realizzare una magia, c’è un mondo di lavoratori e addetti che si sfianca per un mese per dare due ore di felicità, soprattutto che l’opera è un indotto economico enorme perché ci lavorano tantissime realtà, quindi pensare con miopia avvilente che i teatri d’opera siano solo voragini di perdite di soldi la dice lunga su quanto povera e sterile sia questa posizione.