In Italia, ogni anno si svolgono 30 festival del cinema. Nel mon-do di principali ce ne sono circa 360, in pratica uno al giorno.
Questo per un settore che in Italia conta 70.000 addetti, e nel mondo circa un milione, quindi una cifra relativamente ristretta (basti pensare che il nucleo internazionale della parte commerciale del settore cinematografico conta poco piú di 10.000 persone).
All’American Film Market (Afm), l’annuale fiera del cinema di Santa Monica, California, stimano che di festival audiovisivi nel mondo ce ne siano addirittura 4.000 e l’argomento è diventato materiale di esame per una delle conferenze svoltasi durante la fiera.
Tutti questi festival ambiscono ad avere in concorso alcuni film americani e la partecipazione di americani. Ma se i dirigenti e i talenti (attori, registi, sceneggiatori, ecc.) americani partecipassero anche ad una piccola frazione dei festival che si svolgono nel mondo, a questi non rimarrebbe il tempo per lavorare.
Una volta il festival cinematografico serviva all’industria audiovisiva per pubblicizzare un film (risparmiando sul marketing) oppure per trovare un acquirente (distributore) o per recuperare finanziamenti e coproduttori per progetti futuri.
Oggi, con l’evoluzione dell’industria audiovisiva, sia per il modello finanziario che di utilizzo, queste necessità ci sono più. Ma mentre il settore audiovisivo è cambiato, il modello strutturale dei festival è rimasto lo stesso, rendendoli inutili.
Per prima cosa, oggi per un film costato oltre 100 milioni di dollari partecipare ad un festival è rischioso, non solo per il fatto che non potrebbe vincere, ma anche perché il produttore perderebbe il controllo del marketing. Basti pensare ai danni causati da una recensione negativa oppure persino se il film venisse descritto dentro un genere non molto collocabile, quando l’ufficio marketing del produttore ha invece creato una campagna pubblicitaria imperniata su un genere diverso.
Poi ci sono i costi vivi, come le spese per gli entourage richiesti dai talenti (ciascuno con un suo agente per le pubbliche relazioni, che serve anche da balia), i viaggi e gli alloggi. Costi che vengono solo in parte pagati dal festival.
I festival oggi non servono piú all’industria per trovare film da distribuire. Infatti i cosiddetti “A-movie” (film di oltre 50 milioni di dollari finanziati dagli studio) hanno già un distributore prima ancora di esser prodotti. I “B-movie”, provenienti principalmente dai produttori indipendenti, sono noti a tutti gli interessati perché richiedono prevendite e coproduttori. Il resto della categoria non viene invitata o selezionata dai festival, quindi per trovarli bisogna partecipare alle fiere o a festival associati alle fiere, come il Festival di Cannes o il Festival di Toronto.
È ciò che ha fatto anche l’Afi, il festival del cinema nel cuore di Hollywood che, per sopravvivere, ha spostato la data per coincidere con l’Afm a novembre.
Recentemente, la rivista settoriale Usa “VideoAge” ha documentato tutto ciò in un articolo illustrando come gli operatori cinematografici oggi non vadano più ai festival poiché inutili per la ricerca di contenuti da commercializzare. Rimasti ad usufruire dei festival sono i piccoli produttori che chiedono di partecipare a numerose manifestazioni con la speranza di ricavarne un po’ di visibilità e trovare un distributore.
Purtroppo gli organizzatori, per attirare l’attenzione al loro evento, non prestano molta attenzione ai film minori, che invece attirerebbero più operatori, ma poca pubblicità.
I festival inoltre, specialmente in Italia, sono diventati strumenti per distribuire fondi pubblici al patronaggio politico, e quindi hanno bisogno di pubblicità per poterne giustificare le spese. Rimangono quindi necessità politiche e non industriali. Per sopravvivere ai nuovi paradigmi, un festival deve invece, prima di tutto, servire l’industria audiovisiva, in modo da attirarne l’attenzione, e quindi rendere necessaria la partecipazione.
Ecco la necessità di concentrarsi su film che non siano ancora stati acquistati o che abbiano solamente distributori parziali. Si dovrebbe poi organizzare una vera fiera per i film non selezionati e privi di distributore.
La parte “glamour” di un festival dovrebbe essere ricercata altrove, ad esempio nelle conferenze, alle quali le superstar possono partecipare senza timore di essere danneggiate (ad esempio Robert Redford e Arnold Schwarzenegger hanno utilizzato la fiera Tv di Cannes per promuovere loro progetti) oppure per elargire premi come ha fatto il Los Angeles Press Club che si è inventato un “Oscar per il giornalismo gossip” (che quest’anno va a Jane Fonda).