Esistono autori che, se non si possono fare in grande, devono essere lasciati in pace. Ibsen è uno di questi.
Il drammaturgo norvegese è stato negli anni, in grado di insinuarsi nella mente dei propri lettori, sconvolgendo la loro visione della vita, trasformandola in una più intima e profonda. Ibsen, uomo di cultura, spietato, coraggioso, umano, sovvertitore di una società infiacchita e passiva, è stato quel poeta, capace di trasmettere emozione viva e attuale attraverso un messaggio d’avanguardia scritto nell’Ottocento.
Lunga e completa è la sua opera drammaturgica, composta di drammi civili e sociali. Oggi, Gabriele Lavia, nella doppia veste di interprete e regista, ha riaperto il sipario del Teatro Argentina, per un’opera che non veniva rappresentata a teatro in Italia da più di cinquant’anni, (l’ultima volta era stato Orazio Costa): I Pilastri della Società.
Questo dramma, scritto da Henrik Ibsen nel 1877, fa parte della sua ultima produzione, poco prima di dar luce ai più famosi Casa di bambola e Hedda Gabler. Questo è il periodo in cui Ibsen passa dal verso alla prosa; dopo aver trascorso metà della vita a scrivere poemi, inizia a dedicarsi ai cosiddetti drammi borghesi. Il suo nuovo obiettivo diventa quello di fare opera di poeta tragico rinunciando al fantasioso, al leggendario, per adattarsi alle difficoltà della realtà meschina, quella che proprio lui, in quegli anni, vedeva intorno.
Se Eschilo e Shakespeare misero in scena eroi, perché vissero in un mondo eroico e tumultuoso, Ibsen, che viveva in mezzo a una grigia vita, doveva riprodurla così com’era. Proprio dalle angustie di una grigia vita egli ha ricavato la tragedia.
Ecco allora che dai grandi spazi in cui viveva Hjördis, la donna-guerriero in Guerrieri a Helgeland, si passa a uno spazio ristretto dai limiti mentali e morali. Man mano che si restringe l’orizzonte epico, eroico, leggendario, lo spazio tende a rientrare, a fissarsi nell’immagine interna/interiore del salotto.
Poco a poco, la compattezza aristotelica dell’intreccio connota una chiusura verso l’esterno, e in compenso le didascalie dell’autore riempiono di oggetti-arredo le stanze. La dialettica spaziale diventa minima, tra lo studiolo del personaggio maschile, e il salottino dove si riceve.
Ecco l’avanzare degli immancabili pianoforti, tavolinetti, poltroncine, divanetti, stufe, sedie a dondolo, e tappeti, stampe alle pareti e vetrinette. L’interno appartiene alle donne, mentre l’esterno, coincide con lo spazio per soli uomini.
Il salotto biblioteca, nella scena ibseniana, non consente l‘appa-rizione titanica dell‘Eroe Artista e qui il teatro naturalista borghese diventa una cornice rigida, che non permette ingrandimenti di nessun genere oltre i confini. “Se qualcuno cresce troppo, se avanza pericolosamente verso il proscenio, dovrà inevitabilmente essere smontato, ridimensionato, altrimenti sarà espulso”.
Così, in una scenografia degna dei grandi teatri, Gabriele Lavia e la sua compagnia hanno portato in scena “Le colonne della società”. Sontuosi divanetti e triclini purpurei, specchi enormi e ritratti secenteschi appesi a pareti rosso fiammante, un pianoforte, cinque gradoni che sfondano il proscenio e scendono in platea, e una quarta parete a vista che sale e scende. Una magniloquente scena per raccontare un microcosmo fondato su menzogne pluriennali.
Il suo console Bernick è il pilastro di una società marcia alle fondamenta, costruita e avvelenata dal denaro e dalla falsità. Egli vive da oltre quindici anni una vita di inganni: ha sedotto molti anni prima una giovane attrice, ma nel momento in cui stava per essere scoperto, ha fatto ricadere la colpa sul fratello minore di sua moglie Betty, emigrato subito dopo in America con la sorellastra Lona.
Da quella menzogna, il console ha gettato le fondamenta della sua operosità, diventando il primo cittadino della città, il più potente, influente e ricco. Tutto sembra andare per il verso giusto. Bernick continua ad arricchirsi giorno dopo giorno e proprio quando sta per preparare la sua opera più grandiosa, la costruzione di una ferrovia, le fondamenta della sua esistenza pubblica iniziano a vacillare: dall’America, il continente libero, tornano a fare visita alla famiglia del console, la sorellastra e il fratello della moglie.
La performance di Lavia e del suo gruppo d’attori è indubbiamente risultata di altissimo livello. In scena è riuscita a crescere in maniera direttamente proporzionale alla scrittura drammaturgica ibseniana.
Da una recitazione di posa si è arrivati a un ritmo incalzante dettato dall’isteria che solo l’angoscia di una verità che ritorna a galla può causare. Un dramma che cresce e arriva all’apice nel finale, quando Lavia, con magistrale talento, sconvolge le parti trasformando il pubblico in interprete inconsapevole del popolo attore che applaude un leader politico e teatrale.