Se è vero che la Pasqua ha il significato di rinascita, di ritorno alla vita e di celebrazione della resurrezione di Cristo, a Castelbuono, in provincia di Palermo, è la festa della Candelora che preannuncia la passione e la resurrezione del figlio di Dio.
Non soltanto, infatti, un tradizionale corteo di fedeli che recano in mano candele, segna il passaggio dall’inverno – stagione delle tenebre – alla primavera, stagione simbolo di vita, legata ai riti della luce (ecco il significato delle candele in processione) e della rinascita, del risveglio che la bella stagione preannuncia e porta con sé.
E allora ecco che il detto popolare “Pà Cannilora a puddascia nesci a ova” (per la Candelora la gallina fa il primo uovo) assume un vero e proprio significato cristiano di ritorno alla vita.
E l’uovo, simbolo tra i principali di vita, assume un ruolo determinante nella celebrazione della Pasqua e nella sua preparazione, nella ricorrenza della Candelora.
Dalla festa del 2 febbraio a quella della resurrezione di Cristo, che senza dubbio è la più importante per il mondo cristiano, sono parecchi i giorni che intercorrono e intanto si è già celebrato il Carnevale e, il 19 marzo, San Giuseppe. Il “padre della Provvidenza”, come è affettuosamente chiamato. E quale migliore modo terreno di celebrarlo, se non con il consueto amore per il bello e il buono – dove “buono” sta per “soddisfa il palato” – che in Sicilia trova il suo più fertile terreno?
Secondo la tradizione, il 19 marzo, a Castelbuono, un tempo le famiglie preparavano un pranzo particolare a base di verdure che veniva offerto ai vicini di casa, agli amici o anche ai poveri del paese e per invitarli lasciavano le porte aperte delle loro case.
Questo pranzo veniva chiamato “u manciari di S. Giuseppe” e i suoi piatti erano così composti: tagliatelle spezzate con fagiola secca e broccoletti, “a minescia” composta da giri, cardi, finocchietto selvatico e macco di fave secche, baccalà fritto, sarde a beccafico (aperte, disliscate, con ripieno di pan grattato, sale, pepe, passolina e pinoli, origano, olio e succo di limone e avvolte su se stesse e distanziate tra di loro da una foglia di alloro, infine infornate. Le arance o i mandarini per frutta.
Oggi che le porte delle case sono ben chiuse e non vige più l’usanza di offrirlo ad amici, vicini di casa o poveri, il pranzo di San Giuseppe viene comunque ancora cucinato e consumato in famiglia.
In altri luoghi della Sicilia si celebra la festa del 19 marzo cucinando la pasta con le sarde seguita da un secondo di sarde a beccafico che soddisferà il palato degli amanti del “salato”, mentre per far felice chi predilige il dolce, ecco le sfincie di San Giuseppe, una sorta di bignè ma realizzato con un impasto più morbido e farcito di crema di ricotta rigorosamente di pecora e sormontata e decorata dall’immancabile scorzetta d’arancia candita. Soave dolce, passaporto per paradisi terreni e poco santificanti.
Ma il popolo siciliano è ancora oggi tanto goloso quanto osservante delle tradizioni popolari e religiose, in una fusione di sentimenti e di esternazioni.
Così, già arrivati alle porte della Santa Pasqua, ecco rivivere tradizioni e religione nei riti della Settimana Santa.
Dal 1977 a Roccapalumba si snoda per le vie della città una “Via Crucis vivente” molto suggestiva. Fu un gruppo di ragazzi che, con l’entusiasmo proprio della giovane età ma con pochi mezzi, realizzò costumi e scenografie – grazie anche all’aiuto dei compaesani – per fare rivivere la manifestazione che ha radici ben più lontane.
Era il 1950 e Gerardo Iacolino e Calogero Dolce misero in scena il Martorio nella chiesa di Maria S.S. della Luce non ancora completata. Oggi soltanto gli anziani, ma con tanta nostalgia, ricordano l’evento.
Da alcuni anni è l’Associazione San Filippo Neri che organizza la manifestazione mettendo in campo un centinaio di attori e di organizzatori. Faranno da palcoscenico i luoghi naturali e suggestivi della città delle stelle (come è chiamata Roccapalumba).
Si può assistere così all’ingresso, a dorso di mulo, di Gesù in un mercato a Gerusalemme, acclamato dal popolo, lo stesso che poi lo condannerà alla crocifissione portandolo davanti a Ponzio Pilato per poi piangerlo sulla croce e, infine, per adorarlo quando con le braccia rivolte verso il cielo, vedrà attraverso la sua resurrezione, la vittoria della fede sul peccato.
Non manca durante la “salita” al “Golgota” la colonna sonora che con le sue note toccherà le corde più sensibili dei fedeli in processione.
La teatralità della rappresentazione non è una mera messa in scena, ma accoglie in sé i sentimenti dei partecipanti alla toccante sfilata con le sue pause, le sue fermate, i suoi dolori rappresentati con vero pathos che gli “attori” trasmettono ai partecipanti a questa commovente rappresentazione.
Tra i protagonisti principali le Confraternite che, con i loro stendardi e i loro costumi variopinti, danno un aspetto di sontuosa veridicità all’evento.
Fanno parte della tradizione anche alcuni piatti gastronomici quali l’agnello che viene cucinato secondo antiche ricette, “u piecuru” ovvero la pecorella di pasta reale, la frutta di martorana, i “panuzzi di ciena” (panini ricoperti di sesamo e aromatizzati con semi di finocchio – anice) e “u pupu cu l’ovu” (impasto a base di farina, uovo e strutto lavorato e composto a forma di agnellino contenente un uovo sodo).
La Pasqua dei Vangeli è la Pasqua del pane azzimo, non lievitato e Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, chiama i fedeli “azzimi”: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato. Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, ma con az-zimi di sincerità e verità”.
Pasqua, dunque, di passione, di sacrificio, di dolore ma anche di resurrezione, di vita, di amore e di rinascita. Figlia della primavera e con lei madre del sorriso e del tepore del sole, della voglia di godere dei frutti della terra, che in questo periodo è particolarmente generosa.
E allora festeggiamola ancora una volta in tutta la sua bellezza e facciamolo, ancora una volta, come si fa in Sicilia dove si è ca-paci di farlo al di là dei contenuti, importantissimi, religiosi e tradizionali, con la voglia di gioire di ogni cosa.
E quale luogo è maggiormente deputato al godimento se non la tavola? Allora, dopo avere consumato la pasta con le sarde con il suo sapore forte del pesce, addolcito dal finocchietto selvatico, dopo avere consumato altro pesce cucinato con sapienza da cuoche antiche, dopo avere spezzato i sapori con l’aspro delle arance, sarà la cassata, dolce supremo che darà piacere ai sensi della vista prima con la sua tavolozza di colori, del gusto poi, con la dolcezza della sua crema, che non meno di una preghiera sarà il passaporto per ringraziare ed ingraziarsi il buon Dio delle delizie che la natura sa offrire e che l’uomo, col suo amore, sa trasformare per una sua momentanea resurrezione.