In una Piazza San Pietro deserta, quasi spettrale, con il selciato lucido di pioggia che continua a cadere sottile e sotto un cielo grigio da fine del mondo, un uomo solo, vestito di bianco avanza a fatica piegato dagli anni e dalla malattia. E’ il 27 marzo 2020, ore 6 del pomeriggio.

Dalle piccole finestre  domestiche dei propri televisori si affaccia da tutto il mondo un’umanità egualmente sola e dolente, ognuno a percepire nei momenti di massimo terrore per l’incombente pericolo di un virus sconosciuto, la terribilità del sacro, a stento mediata da un Papa  che al Dio giudicante dell’Apocalisse contrappone il Dio del soccorso e della misericordia.

Dal portone della Basilica  tenuto completamente aperto,  nella  piazza  deserta,  Papa Francesco  prega davanti al l’immagine della Salus Populi Romani ed al Crocifisso di San Marcello, rispettivamente l’icona bizantina di Maria conservata in Santa Maria Maggiore e il Crocifisso  venerato dai  romani che nel 1500 una tradizione dice  abbia salvato  la città dalla peste.  Sei grandi  bracieri illuminano il sagrato silente, in questo venerdì trasformato dal Pontefice  in un momento straordinario di preghiera nel tempo della pandemia che flagella il  pianeta.

Sul Papa   convergono  in quello storico momento  la terribile violenza del Sacro e  il   pacificante senso del Divino di cui è simbolo e mediatore. Nel Convivio Platone sosteneva che ogni uomo è simbolo “tessera dell’uomo totale…tensione verso una totalità assente, ma richiamata dall’incompiutezza di senso della situazione presente“. E Jung, che  in Spirito e vita si rifà a Platone, scriveva : “Un simbolo non abbraccia e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, a un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro attuale linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere”.  Il Papa diviene qui, nella drammatica circostanza che siamo chiamati a vivere,  il simbolo di un’umanità smarrita e  dolente, portatore di un significato profondo di cui  diventa l’espressione più alta.  

Cupe nuvole coprono il cielo di Roma, prima della benedizione Urbi et Orbi,  quando Papa Francesco tiene l’omelia dedicata alle difficoltà del momento presente. Lo accompagna  e lo sostiene   monsignor Guido Marini, maestro delle cerimonie pontificie,  mentre  un lettore canta il passo del Vangelo di Marco che racconta dello smarrimento e della paura dei discepoli quando in barca sono sorpresi da una improvvisa tempesta. Gesù dorme sereno  e loro, prima che le acque si calmino, vacillano. “Da settimane – dice il Papa  riferendosi  al passo appena ascoltato – sembra che sia scesa la sera”. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città, si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi”. Ma “da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su tutti, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio”.

Il Papa ha l’aria assorta, la voce un po’ affannata, a San Pietro sta accadendo qualcosa che non ha precedenti nella storia. “Signore – implora-  benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori”. Ricorda il Pontefice  la mancanza di fede dei discepoli nel pieno della tempesta, ma anche la fiducia in Gesù:  “Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda”. Tutti come i discepoli ripetiamo  “siamo perduti”.

Anche noi “ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”. E ancora-  la tempesta  lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità”. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di  dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità”.

Con la tempesta “è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ‘ego’ sempre preoccupati della propria immagine ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli”.   Siamo avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta… Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in un  mare agitato, ti imploriamo: ‘Svegliati, Signore!’”. Di fronte al potere soverchiante della pandemia che ci attanaglia, è “il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”. 

La parole del Papa  scendono come balsamo sui terrori e le angosce del momento, leniscono le ferite, consentono di nominare e definire  la morte e la malattia che attanaglia il pianeta, donando un senso a ciò che senso  apparentemente non ha,  a qualcosa che ci ha trovato impreparati e smarriti. Da una parte la paura del contagio, dall’altra la purificazione della preghiera : un momento solenne e drammatico, altamente sacrale, che difficilmente potremo dimenticare, efficacemente sottolineato  dal suono a distesa delle campane della Basilica e dalle sirene delle ambulanze. Dopo la preghiera, il Papa ha impartito la Benedizione Urbi et Orbi, con relativa indulgenza plenaria. 

Una Benedizione Urbi et Orbi storica, (viene data solo nel giorno dell’elezione, a Natale e a Pasqua), silenziosa, mentre Papa Francesco faceva con l’ostensorio il segno della Croce verso la Piazza e verso tutti coloro che con  Lui  hanno pregato   in tutto il  mondo.

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