Panoramica del centro cittadino di Trieste (Ph© Dieter Hawlan | Dreamstime.com)

Furono almeno 50 e se la loro memoria oggi è stata rispolverata lo si deve a Ranieri Ponis, autore di un volume dedicato proprio ai sacerdoti uccisi nelle foibe. “Storie di preti dell’Istria uccisi per cancellare la loro fede”, pubblicato dalla Litografia Zenit, raccoglie le agghiaccianti vicende che videro uomini di chiesa brutalmente uccisi e gettati negli anfratti naturali del terreno carsico istriano, condividendovi il triste destino di migliaia di italiani vittime del cinismo titino.
Fu una scelta costruita a tavolino quella che mirò all’eliminazione della presenza italiana in Istria e Dalmazia. Gli slavi decisero di colpire anzitutto coloro che erano a vario modo parte della classe dirigente italiana o comunque punti di riferimento e di aggregazione della comunità e tra essi figuravano intellettuali, politici, imprenditori, insegnanti e religiosi. Dopo aver annullato ogni organo civile e militare italiano in Venezia Giulia e Dalmazia, a dare conforto alla popolazione italiana erano rimasti soltanto i vescovi e i sacerdoti. E nel progetto di conquista titina vi era anche quello della persecuzione religiosa, perpetuata scientificamente per spingere gli italiani all’esodo definitivo dai territori. Per farlo si trasformò in azione la teoria formulata nel cosiddetto “manuale Cubrilovic”, originariamente pensato dal suo autore per scacciare gli albanesi mussulmani dal Kosovo, ma che finì applicato da costui, divenuto un’alta personalità del regime di Tito, contro gli italiani.

Il “manuale Cubrilovic” indicava infatti i sacerdoti come i bersagli perfetti per colpire i membri più rappresentativi ed autorevoli della popolazione nemica e suggeriva di ostacolare al massimo la pratica religiosa, di emarginare, scacciare o uccidere il clero italiano per colpire i giuliano dalmati di ceppo italiano nelle loro convinzioni cristiane. Un vero e proprio genocidio, che nei territori balcanici si sarebbe tristemente ripetuto quasi quaranta anni dopo con le guerre fratricide tra serbi, croati, bosniaci e albanesi.

L’eliminazione dei sacerdoti italiani iniziò però già prima dell’8 Settembre 1943, giorno in cui fu firmato l’Armistizio italiano. Padre Antonio Curcio, cappellano militare dell’11° Bersaglieri fu assassinato dai partigiani comunisti jugoslavi mentre nel 1942 morirono il parroco di Bencovaz (Dalmazia) don Rocco Rogosic, ferito mortalmente dai partigiani il 17 maggio, don Raffaele Busi Dogali e don Giovanni Pettenghi pugnalati a morte rispettivamente il 15 giugno ed il 2 agosto, in Dalmazia.
Nei giorni seguenti l’armistizio l’8 settembre 1943, bande di slavi presero per un mese il controllo dell’Istria e durante questo periodo sequestrarono don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino, per poi ucciderlo dopo pochi giorni di reclusione durante una fucilazione di massa. I corpi vennero gettati in una cava di bauxite. In segno di spregio gli aguzzini cinsero il capo dello sfortunato religioso con una corona di filo spinato.
Nello stesso periodo perse la vita don Placido Sancin, parroco di san Dorligo della Valle (sequestrato e sparito nel nulla, probabilmente gettato nella foiba di San Servolo). Nel 1944 gli ecclesiastici vittime dei partigiani slavo-comunisti furono don Luigi Obid (o Obit), parroco a Poggio San Valentino, martoriato ed ucciso il 2 gennaio nei pressi del mattatoio del paese, don Giuseppe Gabana, cappellano delle Guardie di Finanza, che venne ferito mortalmente nella sua abitazione a Trieste il 2 marzo. In Istria fu assassinato il seminarista Miro Vivoda, costretto a scavarsi la fossa assieme a suo padre. A Montenero d’Istria, il 1° settembre, fu ucciso dai partigiani comunisti il chierico Rodolfo Trcek, assieme a due suoi fratelli. Il 12 ottobre venne fucilato a Ranziano di Gorizia fra’ Alessandro Sanguanini e il 18 ottobre toccò a don Giovanni Manzoni, parroco di Rava (Sebenico).
Nelle acque dell’isola di Lastovo (Meleda, Dalmazia) in quell’ottobre fu affogato don Nicola Fantela, canonico della diocesi di Ragusa. Nel 1945 caddero – tra gli altri – don Ladislao Piscani, vicario di Circhina (Go), don Lodovico Sluga, il seminarista Erminio Pavinci da Chersano, il parroco di Bria don Ernesto Bandelli, il cappellano militare don Domenico Gianni, il parroco di San Giovanni di Sterna don Casimiro Paich.

A guerra ormai terminata gli omicidi continuarono senza sosta. A Prepotto (Go) fu assassinato il parroco di Sgonico, don Giovanni Dordolò (o Dorbolò) mentre a Cuscevie toccò a un seminarista milanese, Bruno Finotto, residente a Trieste. Padre Simone Nardin, olivetano e cappellano presso l’Ospedale Militare di Abbazia, fu assassinato dopo essere stato torturato mentre don Vittorio Perkan, parroco di Elsane, fu eliminato mentre celebrava una funzione religiosa nel locale cimitero. Don Domenico Benussi scomparve nella zona mineraria di Vines, il seminarista Gino Vosilla e il compagno di studi Giovanni Massalin, scomparvero nel Fiumano. Don Giovanni Tul, religioso della diocesi di Trieste-Capodistria, fu assassinato dai partigiani comunisti.

Don Francesco Bonifacio fu rapito da un gruppo di “guardie popolari” e militari slavi l’11 settembre 1946. I titini lo picchiarono, lo denudarono, lo lapidarono ed infine lo uccisero a colpi di coltello. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Don Isidoro Zavadlav, parroco di Goregna di Salona (Go), scomparve il 6 settembre 1946, Don Valentino Pirec, parroco di Idria della Baccia, morì il 23 dicembre 1946 per le sofferenze patite in prigionia slavo-comunista. Don Giacomo Minghetti (o Guido), cappellano militare, venne fucilato nel campo di Borovnica, don Miroslavo Bullesich, parroco di Mompaderno e vice direttore del Seminario di Pisino, fu aggredito ed assassinato la sera del 24 agosto 1947. Anche sei suore scomparvero da un convento di Fiume così come i Benedettini di Daila, monsignor Giorgio Bruni, monsignor Giuseppe Dagri, padre Atanasio Cociancich, don Marco Zelco.
Nei terribili mesi delle epurazioni vi furono anche molte distruzioni di edifici sacri, fra cui un buon numero di chiese con il chiaro obiettivo di cancellare persino le tracce visibili del passato italiano della regione, annientandone vandalicamente le stesse opere d’arte, come già era accaduto in Dalmazia.

Qualcuno però riuscì a salvare la vita e a diventare prezioso testimone di una barbarie negata per decenni dai carnefici. Monsignor Alfredo Bonizzer era nato nel 1915 a Montona d’Istria. Suo fratello Ubaldo, giornalista, fu vittima dei partigiani nel 1944 e Don Alfredo se lo caricò in spalla per seppellirlo nel cimitero del paese natale. Il prelato sfuggì nel 1946 al tentativo di arresto da parte dei titini scappando e raggiungendo Trieste con l’aiuto degli anglo-americani. Don Alfredo trovò sostegno nel Governo militare alleato che lo incaricò di essere il direttore della Caritas americana. Il religioso si distinse come attento e premuroso tutore degli esuli istriani e dalmati, e fu anche cappellano dei vigili urbani triestini e del porto. Il vescovo di Trieste, monsignor Antonio Santin, nel 1947 a Capodistria subì l’assalto della folla in seminario. Il vescovo venne pestato per ore senza che la “polizia” (la guardia popolare) movesse un dito in suo soccorso. I “tutori dell’ordine” intervennero solo per paura che la dittatura di Tito subisse un danno d’immagine internazionale quando fu chiaro che il vescovo sarebbe stato ucciso. Monsignor Santin fu espulso da Capodistria e diventò la memoria vivente di quel terribile periodo storico.


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