Festeggia 15 anni “La leggenda del pianista sull’oceano” (The legend of 1900), il film diretto da Giuseppe Tornatore, tratto dal monologo teatrale “Novecento” di Alessandro Baricco, che nel 1999 ebbe tre nomination al premio Oscar e vinse il David di Donatello. L’anno successivo Ennio Morricone, autore della colonna sonora, trionfò ai Golden Globe assegnati dall’Hollywood Foreign Press Association.
Il film di Tornatore narra la storia di Novecento, un bambino nato proprio a cavallo del secolo sulla nave Virginian, che fa la spola tra Europa e America. Novecento non abbandona mai la nave per scendere a terra e le sue relazioni sono vissute esclusivamente su quel piccolo mondo galleggiante, dove da autodidatta impara la musica e diventa un pianista straordinario.
Il monologo di Baricco, in diverse versioni, è rappresentato in tutto il mondo con grande successo. Negli anni scorsi l’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles ha proposto sia il film del regista italiano sia la messa in scena di Nestor Saied.
Recentemente l’attrice Cinzia Damassa ha realizzato una trasposizione al femminile del monologo di “Novecento”, proponendo lo spettacolo in due versioni: con l’accompagnamento di Stefano Calvano alle percussioni e one-woman show, con la sola attrice presente sul palcoscenico.
Com’è nato il “suo” Novecento?
Il progetto è nato casualmente. Tre anni fa mi è stato chiesto di leggere “Novecento” a tre classi di una scuola media a Settimo Milanese per la Giornata della Lettura. Non conoscevo il testo, ma prima ancora di realizzare come risuonava dentro di me, ho sentito l’impatto profondo che ha avuto su una platea di ragazzini abituati a suggestioni soprattutto visive. In quell’occasione ho avuto la gioia di costatare che tutti erano riusciti ad ascoltare in silenzio per più di un’ora e mezza. Quell’esperienza mi ha lasciato la voglia di approfondire e quindi di coltivare il sogno, di portarlo in forma di monologo al pubblico come attrice. L’ho dunque proposto al regista con cui collaboro da anni, Roberto Cajafa, con il quale qualche mese dopo, nel giugno del 2012, l’ho portato per la prima volta in scena.
Cosa l’ha fatta innamorare del progetto e cosa ha scoperto approfondendo il testo?
Ciò che mi ha inizialmente colpito del testo è lo stile, originale, fiabesco, a tratti inafferrabile; mi sono accorta di leggerlo come si ascolta una musica che ti coinvolge nell’intimo senza un vero perché. A tutti credo sia capitato di innamorarsi di un testo musicale o di una musica senza capirne davvero il motivo.
Sentivo il bisogno di correre alla fine e quindi di rileggerlo. La seconda lettura mi ha totalmente conquistata perché sentivo che si parlava della vita, nel suo senso più profondo. Qualche tempo dopo ho capito che era un testo prezioso, perché fa riflettere, rivalutare, perché accarezza forze e debolezze di ognuno di noi, perché tocca corde profonde.
Dopo quasi tre anni, ancora oggi, ho voglia di studiarlo e approfondirlo: l’anima di Novecento in fondo non può non richiamare per chi lo conosce e lo ama l’Idiota di Dostoevskij, il principe Myskin, imbelle e genio, incapace di stare in un mondo che ti costringe a scegliere, bruciando alternative e opportunità, mortificando lo spirito, lui che è puro spirito e che vede nella scelta un elemento di cinismo, di utilizzo del mondo per i propri fini.
Aspetti ed emotività della trasposizione al femminile.
Il regista ed io abbiamo discusso a lungo se rappresentare al maschile o al femminile il narratore, l’amico di Novecento, il trombettista, testimone e amico del protagonista. Poi si è deciso per una trasposizione al femminile. In questo modo abbiano potuto lavorare sull’amicizia di un uomo e di una donna.
Aldilà di ciò, è la lettura del testo al femminile che sono convinta possa dare un contributo. Novecento è una creatura androgina per definizione, quindi un’interpretazione femminile non può che arricchirne il contenuto. Il nome del piroscafo stesso, il Virginian, non è casuale. Come non lo è la figura di Jelly Roll Morton, lo sfidante di Novecento, parodia della mascolinità più rozza.
Perché due versioni diverse di “Novecento” e come ha vissuto la duplice presenza sul palcoscenico?
Ancora una volta per puro caso (ma il caso evidentemente non esiste) ho avuto fra il pubblico Stefano Calvano, eclettico batterista, percussionista e musicista ravennate che suona percussioni etniche come cajon, congas, bongos, timbasle, darbuka tablas, percussioni elettroniche come wave drum, loops e tabla box, come anche strumenti da lui stesso inventati e costruiti. Fra noi si è instaurata immediatamente una forte empatia e naturalmente è nata la voglia di lavorare insieme.
Novecento si dice suonasse una musica che non esisteva prima che la suonasse lui, e questo è ciò che ho potuto sperimentare lavorando con lui.
Ho sentito che il monologo si arricchiva così di una nuova interpretazione, la presenza in scena di un artista come Calvano, che notoriamente sperimenta e improvvisa, permette la lettura del testo come la metafora del lavoro dell’artista: la nave diviene il viaggio dell’artista stesso dentro di sé e, come la nave che cambia equipaggio e clienti, così il musicista cambia ogni sera il suo pubblico e la sua musica con lui. La musica diventa un galleggiare, un modus vivendi, la ricerca di un macrocosmo nel microcosmo.
Progetti futuri?
Per “Novecento” sto lavorando alla sua versione in inglese per poterlo portare all’estero. Inoltre, a breve inizierà una sperimentazione con l’accompagnamento live di un trombettista che sarà la voce musicale di Jin Tooney.