“…After all, went home and perhaps throughout the city there were four happy maidens. I’m glad I did a bit of good to our friendly neighbors! – cried Meg”.
Comincia così “A happy Christmas”, il secondo capitolo di “Little women”, le Piccole Donne di Louisa May Alcott nata il 29 novembre 1832 a Germantown, in Pennsylvania.
L’episodio del Natale, riportato poco sopra, in poche e scarne parole, presenta una visione della Festività ben lontana dalle banali frasi di circostanza, dagli atteggiamenti “fintamente” buoni, a cui oggi “siamo costretti” ad assistere: Jo e le sue sorelle, prima ancora di fare colazione la mattina di Natale, corrono a portare aiuto ad una famigliola in gravissime difficoltà economiche e, tornando a casa, le quattro giovani erano “le fanciulle più felici della città”.
Anche una bellissima favola di Wilhelm Grimm (1786 /1859), forse tra le meno note, “Die goldenen Sternen”, Le stelle d’oro, che solitamente viene inserita nei libri per l’infanzia nei Paesi di lingua e tradizione germanica come racconto di Natale, racconta dell’importanza di un Natale fatto di amore verso il prossimo.
“Ah sì! – pensava – se le stelle piovessero oro su di me ne raccoglierei tanto tanto e farei poi tante case grandi grandi per ospitare i bambini abbandonati. Se le stelle di lassù piovessero oro, vorrei consolare tutti quelli che soffrono; sfamerei gli affamati, vestirei i nudi… Mi vestire, disse guardandosi con un sorriso”.
Una bimba, lasciata sola al mondo, pur in miseria assoluta, riesce comunque a essere generosa verso i bisognosi e vorrebbe, potendo, dare loro molto di più, finché, una notte, tutte le stelle del firmamento si riversano sulla poverina in forma di monete d’ oro e lei, raccogliendole nella sua misera veste, penserà, come prima cosa, di utizzarle per costruire grandi palazzi in cui ospitare tutti i bisognosi e porre fine definitivamente alle ingiustizie enormi su questa Terra.
Così deve essere il vero Natale, indipendentemente dalle fedi religiose, dai Paesi, dalle lingue, dalle epoche storiche.
“Oh schiavo, incatenato, oppresso di ceppi! – urlò – a non sapere che secoli e secoli di assiduo lavoro compiuto da creature immortali a pro di questa terra passeranno nell’eternità prima che tutto sia sviluppato il bene ond’essa è capace; a non sapere che ogni spirito cristiano, pur lavorando nella piccola sfera assegnatagli, qualunque essa sia, troverà troppo breve la vita mortale ad esercitare tutti i mezzi innumerevoli del rendersi utile; a non sapere che non c’è durata di rammarico la quale ci assolva dalle occasioni perdute nella vita! E questo io ho fatto! E tale ero io!”.
Così lo spirito del defunto Marley al socio e amico Scrooge in “A Christmas Carrol” di Charles Dickens (1812 /1870). L’episodio mostra quanto e come il personaggio si sia allontanato dai suoi cari e dall’amore, diventando una persona insensibile.
Giovanni Pascoli (1855 /1912), ne “La buona novella”, l’ultimo dei “Poemi conviviali” che l’autore pubblicò nel 1904, rivive l’evento che ha cambiato la storia dell’umanità, attraverso passaggi di estrema bellezza ed attualità: “Si vegliava sui monti. Erano pochi pastori che vegliavano sui monti di Giuda. Quasi spenti erano i fuochi. Altri alle tombe mute, altri alle fonti garrule, presso. Il plenilunio bianco battea dai cieli sopra le lor fronti. Ognun guardava ai cieli, come stanco, stanco nel cuore; ognuno avea vicino il dolce uguale ruminar del branco”.
E’ la notte di Natale e oggi, come allora, pochi si differenziano dal branco. Secondo il poeta, ciò che distingue un uomo autentico da un uomo ridotto alla sua dimensione bestiale, è l’essere “sempre in cammino”, essere cioè incapace di trovare soddisfazione nei beni materiali. Pascoli ha la profonda consapevolezza che un uomo non si deve appagare di quello che la terra gli offre, ma deve fare molto di più, deve guardarsi intorno, deve migliorare ogni giorno se stesso, deve essere utile ai suoi simili. Il Natale deve essere un’occasione preziosa per ricordare, per riflettere, per cambiare.
Giuseppe Ungaretti (1888 /1970), nella poesia dedicata al Natale, racconta del suo ritorno a casa in licenza dal fronte della Prima Guerra Mondiale. E’ molto stanco e non vuole fingere di dimenticare neanche per un po’ le atrocità della guerra, la morte dei suoi compagni, il dolore delle famiglie di chi non c’è più, tuffandosi tra la gente e nella città in festa: Natale Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata… Dalla dolce e pensosa tristezza di Ungaretti (1888-1970) a “Caffè a Rapallo”, una poesia che fa parte della raccolta “Ossi di seppia” di Eugenio Montale (1896 /1975), pubblicata nel 1925. La prima parte descrive le “nuove sirene”, ovvero le donne frivole e vuote, che passano il tempo nel caffè, tra cristalli luccicanti e vestiti alla moda. E’ qui che il poeta rimpiange il vero Natale, quello innocente dei fanciulli, dell’allegria, della musica che inonda le strade. Il mondo che descrive se ne sta andando irrimediabilmente e non può tornare: i ragazzi diventeranno uomini e la loro gioia si trasformerà in “male di vivere “.
Natale nel tepidario lustrante, truccato dai fumi che svolgono tazze, velato tremore di lumi oltre i chiusi cristalli, profili di femmine nel grigio, tra lampi di gemme e screzi di sete… Son giunte a queste native tue spiagge, le nuove Sirene!; e qui manchi Camillo, amico, tu storico di cupidige e di brividi. S’ode grande frastuono nella via. È passata di fuori l’indicibile musica delle trombe di lama e dei piattini arguti dei fanciulli: è passata la musica innocente. non può tornare: i ragazzi diventeranno uomini e la loro allegrezza si trasformerà in male di vivere.
Ci sarebbero moltissimi altri autori italiani e stranieri che potrebbero passare in nostra compagnia il Natale: un’espressione della Alcott li mette tutti d’accordo: “Love is the only thing we can take with us when we leave, and it makes the end so easy….”