Sono trascorsi cinquant’anni da quando in edicola, nel mese di ottobre del 1962, è uscito il primo numero di Panorama. Nato come mensile, ben presto si trasformò in settimanale.
Ha raccontato e continua a farlo ancora oggi, la storia d’Italia, una storia scritta da firme prestigiose di giornalisti sempre in cerca di “Notizie” con N maiuscola e con un occhio sempre rivolto alla verità, alla responsabilità di chi sa di potere influenzare pareri e pensieri di chi legge.
Oggi, e già dal 1° settembre 2009, il direttore della rivista è Giorgio Mulè, siciliano di origine ma ormai milanese di adozione. Nasce a Caltanissetta il 25 aprile del 1968 ma giovanissimo si trasferisce a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, dove compie gli studi. Palermo lo vede studente universitario e non solo. Inizia a collaborare con il Giornale Di Sicilia nel 1986 occupandosi di sport e nel 1989 si appassiona alla cronaca giudiziaria.
Per qualche mese decide di trasferirsi negli Stati Uniti e collabora con America Oggi. Torna in Italia e nel 1992 inizia a lavorare a Il Giornale sotto la direzione di Indro Montanelli.
Quando alla direzione del quotidiano milanese arriva Vittorio Feltri, questi gli affida la guida della cronaca della capitale e, poco dopo, della redazione romana. Passato a Panorama, ricopre diverse cariche: inviato, caporedattore, vicedirettore e vicedirettore esecutivo.
In seno al gruppo Mondadori, a cui appartiene anche la testata Panorama, assume diversi incarichi di prestigio tra cui la direzione di Panorama Economy, la vicedirezione della testata Mediaset, Videonews di cui nel maggio 2006 diventa direttore.
Altre esperienze giornalistiche lo vedranno sempre all’interno delle varie testate della Mondadori sino ad approdare, appunto, alla carica di Direttore di uno dei settimanali italiani più prestigiosi: Panorama.
Quest’anno il Magazine compie cinquanta anni e in edicola è uscito un numero speciale. Sfogliarlo è stato come riguardare il passato con i suoi avvenimenti più significativi, di quelli che lasciano un segno nella storia ma che ci inducono, tuttavia, a volgere lo sguardo avanti. Ci spingono a non voltarci indietro perché se è vero che non c’è futuro senza passato, non si può rimanere abbarbicati a un tempo della storia che è in continua trasformazione, che è fatta del domani più che dell’ieri.
Abbiamo intervistato il direttore Giorgio Mulè ed ecco le risposte che ci ha dato:
Quali sono le differenze tra il l’Italia del 1° numero di Panorama e l’ultimo?
L’Italia di oggi non riconosce quella del 1962 e nel 1962 era impensabile un’Italia come quella di oggi. Qual è migliore? Non lo so, so che nel 1962 era un’Italia in crescita, quella del boom economico, della speranza, che veniva fuori dalle macerie. Oggi è un’Italia di macerie, di poca luce, di speranza mortificata; oggi c’è molto volontariato ma è una nazione poco solidale, sta ancora formando il suo carattere.
Cosa pensa dei giovani che vanno via, oggi, dalle proprie città, dall’Italia, per trovare lavoro?
Non mi fa paura questo fenomeno, la “fuga dei cervelli”. Siamo cittadini del mondo globale. Bisogna che i giovani sperimentino.
Qual è, secondo lei, la differenza tra gli emigrati italiani della 2° metà dell’ ‘800 e i primi decenni del ‘900 rispetto a quelli dei nostri giorni?
Quelli di oggi non sono emigrati, si spostano. Nell’ ‘800 si era costretti perché il lavoro veniva cercato altrove, si era costretti. Adesso si va con entusiasmo. Un tempo si tornava arricchiti, oggi si torna arricchiti di esperienza, di crescita.
Lei si è mai sentito in qualche modo emigrante?
Mi sono sentito un emigrante nel senso di vivere male la lontananza dalla mia terra. Ma oggi penso che forse avrei fatto meglio a restare all’estero.
Le è rimasta qualcosa – visto che vive e lavora ben lontano dalla Sicilia – della sicilianità?
Ribadisco la mia sicilianità. Ero, sono e sarò al 100% siciliano. Per formazione, imprinting, relazioni, conoscenze, modo di fare che è mio in quanto siciliano.
La considera un’inevitabile malattia paragonabile al “mal d’Africa”, oppure non crede che esista?
È strano, non sento il bisogno di tornare ma vado via. Non sopporto atteggiamenti che non mi appartengono. I comportamenti per strada tra gli automobilisti, i ritmi, la puntualità. Quelle piccole cose che sono insopportabili.
La Sicilia di oggi, alla luce delle recenti elezioni regionali, le sembra cambiata rispetto a quella di qualche anno fa? Se sì, in che cosa, in che misura e quali sono i motivi?
Le ultime elezioni non hanno cambiato nulla. Il 50% dei siciliani non è andato al voto, non ha scelto. Questa è la sconfitta della politica. Noto che c’è un risveglio della società civile. I giovani non devono essere costretti ad andare fuori ma non devono pensare più al posto nelle amministrazioni pubbliche. Deve esserci più impresa. Più che per problemi di mafia, mancano le infrastrutture; in 40 anni non si sono costruite dighe per dare l’acqua nelle province agrigentine e trapanesi. È il nuovo che non c’è.
Ci parla un po’ della sua esperienza di giovane cronista al Giornale di Sicilia? E di Indro Montanelli e dei rapporti con lui cosa può dirci?
Ero ancora studente al Liceo classico di Mazara del Vallo, già scrivevo di sport per il Giornale di Sicilia. Poi andai all’Università di Palermo, mi iscrissi a Scienze politiche ma non volevo fare nulla che fosse attinente con quella laurea. Intanto, mentre ero al “classico” a Mazara, studiavo musica al Conservatorio di Trapani (era quello che volevo fare: il musicista). Poi, il morbo del giornalismo mi prese e nel 1986 cominciai. Ebbi un contratto di collaborazione con il Giornale di Sicilia. In quel tempo gli articoli si scrivevano a macchina. Io non avevo la macchina da scrivere e me li facevo battere da un signore che scriveva velocissimamente, con una mano soltanto, che copiava tesi di laurea, in corso Vittorio Emanuele per £.200 a cartella; io ne guadagnavo £.1.800 lorde. Al giornale mi hanno insegnato il mestiere, la capacità di reazione ai fatti. Poi vinsi una borsa di studio al Giornale e per 7 mesi andai in America. Tornai indietro. Il 1° di aprile fui assunto. Il 1° aprile è una data importantissima per me. 1° morto, buco subito, battesimo del fuoco. Nel ’90 con Milano dopo, ’92 (stragi) Il Giornale. Montanelli aveva la capacità di farti sentire al suo livello, ti metteva a tuo agio, ti parlava come se dovesse imparare da te. Quando uscì il libro “Il meglio di Controcorrente”, gli chiesi di dedicarmelo, scrisse “A Giorgio dal suo amico Indro”. Era una persona di grande umiltà.
La sua vita giornalistica è piena di successi; essere direttore di uno dei più importanti settimanali italiani, per di più lei lo è diventato in giovane età, ha cambiato la sua vita? Cioè, si volta mai indietro a guardare quel ragazzo della provincia siciliana? E come si vede? Ha dovuto fare delle rinunce? Accettare dei compromessi?
Me l’ha peggiorata! Tutto è successo in maniera veloce. Non ho tempo di guardarmi indietro. Ho visto come ho bruciato i miei 20, i miei 30 anni. Ho sacrificato la mia vita privata. Però rimango un privilegiato, sono consapevole, ringrazio la vita; alla fine, il saldo sarà positivo. Vorrei solo dedicare più tempo agli affetti, a mia moglie e alla mia splendida figlia.
Cosa può dire ai giovani giornalisti di oggi alla luce di una prossima e quanto mai incerta riforma dell’Ordine, insieme alle difficoltà economica che sta attraversando il Paese e l’editoria in particolare?
Primo, non accontentarsi di conoscere le materie istituzionali, il diritto; oggi si deve conoscere bene più lingue, conoscenze che fanno di una persona una persona indispensabile. Formazione poliglotta (cinese, arabo, inglese) e culturalmente lontana dall’Italia. Andare all’estero.
L’11 settembre 2001 ha cambiato, a suo parere, il modo di fare giornalismo? Se sì, in che modo?
Ha cambiato noi. Ci ha dato una consapevolezza, ha reso i giornalisti più convinti del ruolo che hanno. Coltivare il dubbio, non contentarsi delle versioni ufficiali. Rispettare l’essere umano.
E noi non possiamo che fare nostra la risposta di Giorgio Mulè e ringraziarlo anche per la sua ribadita sicilianità.