Come le spirali del fumo di una, due, cinque, dieci, cento sigarette possono essere l’emanazione del pensiero di  uomo, così la sua penna, il suo inchiostro, i suoi righi su un foglio di carta sono le sue verità, la sua logica e anche, a volte, la sua condanna.

 
Così fu per Mario Francese, giornalista, siracusano ma trapiantato a Palermo, al Giornale di Sicilia, dove coltivò la sua passione, il suo amore per la giustizia che per lui erano semplicemente il suo lavoro.
E come tutti i grandi non pensava alle conseguenze che avrebbero avuto la sua intuita verità, le sue denunce di uomo civile, di uomo con la “U” maiuscola.
 
Incurante del pericolo che non riuscì a quantificare, a valutare nella sua  tragica, immensa dimensione, viveva da cronista e da buon padre di famiglia.
Quattro i suoi figli: Giulio, Fabio, Massimo e Giuseppe, dal più grande al più  piccolo che ogni giorno, prima di andare al lavoro, metteva in fila davanti a sé e li pettinava con amore, come se i denti di quel pettine fossero le dita delle sue mani che scivolavano in una carezza e insieme fossero uno scardasso che dipanasse i problemi e i dolori della vita.
 
Non fu così. Il suo abituale e affettuoso gesto che rimarrà impresso per sempre nella memoria dei suoi figli non li salvò dal dolore per la sua morte.
È il 26 gennaio 1979, è  sera, Giulio, il primogenito, il suo “erede” nel lavoro – già collabora a un quotidiano palermitano, il Diario – e appena scende alla fermata dell’autobus, vicino casa, scorge una gran folla davanti quasi il portone dell’abitazione di famiglia.
Che peccato che suo padre non sia ancora arrivato – pensa – perché questa folla e i poliziotti che sono lì, c’è pure il questore Giuliano (anche lui dopo qualche mese sarà ucciso) fanno pensare a un fatto di cronaca nera.
 
Intanto è sceso anche Fabio, il secondo dei figli e si aggira tra la folla. Non riescono a vedere molto. Massimo, quattordici anni appena, è sceso in strada anche lui. Solo Giuseppe, il più piccolo – ha soltanto dodici anni – è rimasto a casa perché ha la febbre.
I tre fratelli si ritrovano davanti a un cadavere e subito l’angoscia li assale. Papà che è sempre presente ai fatti di cronaca i più cruenti, non c’è a fare domande, con la sigaretta in bocca e il taccuino con la penna in mano a sprigionare pensieri, a cercare verità e logica.
 
Questa volta è lui il protagonista, il cadavere. Il sangue sull’asfalto è il suo. Mario Francese muore di ritorno dalla sua ennesima, normale giornata di lavoro di giornalista, di cronista e ha avuto il solo torto di capire e non tacere sui tremendi fatti che non si “dovevano” raccontare.
Non più carezze tra i capelli dei suoi figli, non più dolcezze per la moglie, non più denunce di fatti criminosi.
Mario Francese sarà “collocato” in una sorta di oblio, di silenzio.
 
Intanto i figli crescono ed è il più piccolo che non riesce più degli altri a rassegnarsi a questo silenzio, ai sospetti di complicità o meglio di omertà anche da parte dei colleghi che sembrano scomparsi, che non parlano mai di quel terribile omicidio.
Giuseppe impara – andando a memoria e studiando le carte, gli articoli di suo padre – il metodo di lavoro di Mario e riesce a trovare tracce, coincidenze che trasmette alla Procura di Palermo.
 
 Mario Francese all’epoca dei fatti

 Mario Francese all’epoca dei fatti

Sono passati venti anni; finalmente si riapre l’inchiesta sull’omicidio del cronista del Giornale di Sicilia ed è una donna, il magistrato Laura Vaccaro che solleva , finalmente, quel velo che aveva pietosamente coperto il cadavere ma con lui anche i colpevoli dell’uccisione di Mario.
Il processo si conclude con tre condanne: Bagarella, Riina, Provenzano rispettivamente esecutore il primo, mandanti gli altri due. La “Cupola” viene fortemente colpita ed è resa giustizia a quel giornalista che per primo aveva “osato” fare il nome di Totò Riina su un giornale.
 
Nel tempo è stato istituito un premio in memoria del suo omicidio, il premio Mario Francese che ogni anno da quasi venti  ormai, l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia assieme alla Fondazione Francese assegna a giornalisti che con il loro lavoro hanno “firmato” la loro lotta alla mafia, al crimine mafioso.
Nel 2010 questo riconoscimento è stato conferito a Francesca Barra, giornalista professionista,  che  con la sua trasmissione radiofonica (radio 2)”La bellezza contro le mafie” ha dato un notevole contributo alla costante denuncia di atti criminosi di natura mafiosa. In quell’occasione- l’evento si è svolto proprio a Siracusa, città natale di Francese – ha conosciuto la famiglia del giornalista ucciso.
 
Ha ascoltato la storia di quella famiglia mutilata del suo  capo, ma uccisa anche lei un’altra volta dal suicidio di Giuseppe, il più piccolo dei fratelli.
Sì, Giuseppe ha raccolto le prove, gli articoli, il materiale che hanno permesso di fare giustizia, di dare giustizia alla sua famiglia della perdita crudele e insopportabile di Mario, ma tutto ciò non ha reso giustizia al suo cuore, al suo dolore.
 
Francesca Barra ha voluto – ed è stata la prima – raccontare la storia di questa famiglia bella, sana, piena di  rigore morale e di una grande dignità anche davanti a dolori così forti come quelli che hanno vissuto i suoi protagonisti.
Ricevere il premio è stata per lei l’occasione di approccio a una vicenda che non conosceva, che non aveva mai avuto un’eco così vasta da superare i confini di quel triangolo di terra chiamato Sicilia.
Perché “meno si parla di certe cose, di certi delitti, meglio è”.
Lei, non siciliana, ha sentito il bisogno, il dovere quasi, di dare ancora una volta e sotto un altro aspetto, di rendere giustizia a Mario, a Giuseppe e a tutta la famiglia Francese.
 
“Il Quarto Comandamento” è il titolo del libro, edito dalla casa editrice Rizzoli. “Onora il padre e la madre è  l’insegnamento biblico che Giuseppe ha seguito, ubbidiente, per cercare la verità sulla morte del padre.
Per parecchi decenni – e forse lo è ancora – l'”onora il padre” dei mafiosi è stato di ben altra natura , è stato il lasciapassare per la “legge del taglione”: tu ammazzi un membro della mia famiglia, io ne ammazzo uno della tua.
 
Giuseppe e i suoi fratelli hanno dimostrato come la giustizia  può dare un senso alla morte di una persona onesta, anche se non potrà mai restituirla ai suoi cari, anche se non potrà  mai risarcirli del dolore.
Giuseppe non ce l’ha fatta a superare lo strazio di non avere potuto “vivere” suo padre per tutto il tempo che avrebbe voluto, che sarebbe stato giusto avere.
 
Il 31 marzo scorso Francesca Barra ha presentato a Palermo, nella sede dell’Ordine dei Giornalisti, il suo libro. Insieme a lei, oltre ad altri colleghi giornalisti e al magistrato Antonio Ingroia, c’era un altro cronista, Giovanni Tizian, che vive sotto scorta perché ha denunciato le infiltrazioni della  ‘ndrangheta calabrese nel tessuto economico – sociale dell’Emilia Romagna.
 
Sono tante le vittime di queste associazioni  che definire malavitose o che hanno lo scopo di delinquere è altamente riduttivo; noi vogliamo sottolineare che sono assassini, che qualunque condanna verrà loro assegnata sarà sufficiente a risarcire affettivamente e moralmente della perdita di chi è caduto, comunque, sul posto di lavoro, soltanto per avere scrupolosamente compiuto il proprio dovere.
Giovanni Tizian, parlando ai giovani aspiranti giornalisti ha detto che uniti si è più forti. Non bisogna isolare o isolarsi. Insieme sarà più facile denunciare e i rischi per la propria incolumità saranno certamente ridotti.
 
Noi dobbiamo ringraziare questi colleghi che – a rischio della propria incolumità e della loro libertà – continuano a denunciare per dare un mondo migliore, per insegnare che il crimine non paga, che è dovere di tutti agire sempre facendo il proprio lavoro con la lealtà che è richiesta a chi può influenzare l’opinione pubblica, a chi ha l’obbligo di raccontare i fatti, dicendo sempre la verità.

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