Cosa c’entra Madre Teresa di Calcutta con la Sicilia? La domanda è legittima, ma c’è sempre un filo conduttore in ogni cosa. Il “filo” si chiama Renzino Barbera. Molti si domanderanno chi è, anzi chi era, Renzino Barbera?
 
I Siciliani, almeno quelli non giovanissimi, l’hanno conosciuto, sentito parlare, recitare, raccontare.
Sì, perché era un poeta, un attore, un grande narratore. 
 
Apparteneva alla famiglia dei Barbera, quelli dell’industria palermitana dell’olio e dello stadio intitolato proprio a un altro Renzo Barbera. Negli anni ’60 conduceva un programma radiofonico di grandissimo successo dove protagonista era un certo “don Totò”, figura, una maschera quasi, che rappresentava il siciliano-o meglio-il palermitano popolare, quello che allo stadio urlava le frasi più volgari ma che all’ora di pranzo – era dopo il gazzettino che arrivava il programma di Renzino – allietava in modo esilarante chi ascoltava. Era un rito e la volgarità del personaggio era mitigata dalla sapiente voce del Barbera e dalla sua innata gentilezza e signorilità.
 Renzino Barbera, qui con l’attore teatrale siciliano Gianfranco Jannuzzo 

 Renzino Barbera, qui con l’attore teatrale siciliano Gianfranco Jannuzzo 

 
Fece anche teatro, a Catania, e si dedicò pure all’editoria. Era un poeta, di quelli che ti prendono il cuore sia scrivendo nel suo amato dialetto che trasformava per essere comprensibile ai più, sia usando un forbito italiano.
 
Ed è il Renzino Barbera, siciliano e poeta, che lo lega a Madre Teresa di Calcutta perché a lei dedicò una poesia:
“T’avesse fatto nascere a Roma / Il Dio del Papa. / A Londra, a Parigi, a Montecarlo / T’avesse fatto bella, alta, affascinante… / E invece T’ha dato vita in un angolo del mondo, / piccola, brutta, deforme donna, / dove la miseria è Angelo Custode. / Rosa è la morte, unica speranza. / Allora l’hai sfidato, forse per vendetta, / e contro di Lui hai lottato / contro quel che ha creato: / la lebbra, l’artrite deformante, il cancro, l’aids… / hai combattuto contro la vecchiaia, / gli istinti più crudeli che lui ha dato / ad uomini, ad animali, alla natura stessa: / tifoni, siccità, inondazioni, frane, terremoti. / Hai combattuto, piccola, brutta, deforme donna, / come se fossi bella, alta ed invincibile, / seguita da miseri e da Re come una stella. / E Lui, alla fine, stanco d’essere osteggiato, / come fa sempre, Ti ha schiacciato. / E sei caduta in un piovoso giorno di settembre, scagliandogli contro l’ultima preghiera.”
 
E proprio il 5 settembre del 1997, sono passati 17 anni, moriva la piccola albanese che volle a tutti i costi diventare indiana tra gli indiani più poveri e malati e fu sepolta a Calcutta, presso la sede delle Missionarie della Carità. L’avvolse il suo saio bianco con le strisce azzurre che volle come divisa del suo ordine, delle sue consorelle – forse perché il più economico che trovò o forse perché quelli erano i colori della casta degli “intoccabili” in India, cioè i più poveri, i più diseredati.
 
Sulla sua tomba, bianca, volle inciso un verso del Vangelo di Giovanni: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”.
 
Conobbe la ricchezza, da piccola, e anche la povertà. Si dedicò al volontariato prima di prendere i voti e fu monaca di Loreto. Il suo ordine non le consentiva di allontanarsi dal convento ma fu sempre consapevole delle terribili condizioni di vita negli slum di Calcutta, grazie alle attività di volontariato che le sue alunne (era insegnante di storia e geografia) svolgevano.
 
Pronunziò i voti perpetui nel 1937, a Darjeeling dove prese il nome di Madre Teresa che conserverà sino alla morte.
 
Nel 1948 le fu assegnata la cittadinanza indiana. Nel 1958, dieci anni dopo, aprì un centro per i malati di lebbra a Tigarah, alla periferia di Calcutta, e lo dedicò a Gandhi, ricordando il suo impegno per i lebbrosi. Alla struttura diede il nome di “Gandhijj’s Prem Niwas”, dono d’amore di Gandhi. 
 
Era solita dire: “Non ci sono lebbrosi, solo la lebbra, e si può curare”.  Infatti, nel suo villaggio di Shanti Nagar (Città della pace), vivevano malati di lebbra che si dedicavano alla cura dei campi, alla coltivazione, all’allevamento, ad attività artigianali ed erano aiutati da volontari sani, evitando così l’emarginazione.
 
Nella sua lunga vita, morì a 87 anni, incontrò tre papi: Paolo VI, Giovanni Paolo II e Ratzinger;  ebbe assegnato il Premio Nobel per la pace nel 1979 ma non volle partecipare alla cena di gala facendo destinare ai poveri di Calcutta i 6.000 dollari di fondi che sarebbero stati sufficienti a sfamarli per un anno intero.
 
A tanti anni di distanza dalla sua morte il suo ricordo è ancora vivo ed è presente in tutti gli abitanti della terra perché non fece mai distinzione di religione, assicurando a tutti, in punto di morte, l’assistenza religiosa della propria fede.
 
Sapere che un siciliano, poeta e uomo di teatro come Renzino Barbera le ha dedicato una poesia, ci fa sentire più vicini a Madre Teresa e, forse, può servire da stimolo per cercare, oggi più che mai, la tanto agognata pace nel mondo.
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