Cinque metri per tre è la misura della Porta d’Europa che si affaccia sul mare di Lampedusa ed è la cifra del ricordo di tutti i migranti che in quel mare hanno trovato la morte. Ed è anche la misura di alcune imbarcazioni che sono state, per molti, la tomba nella quale è affogata la speranza di sbarcare in un mondo migliore.
Costruita in ceramica refrattaria, resistente alle intemperie che a volte scuotono quell’ultimo lembo d’Europa che è l’isola siciliana di Lampedusa, è posta a memoria indelebile del dolore di tanti che non hanno toccato, da vivi, quelle rive di salvezza delle loro già martoriate esistenze.
Lo scorso 23 febbraio la nave Aquarius ha preso il largo verso il canale di Sicilia partendo da Palermo per portare aiuto, ove ve ne fosse bisogno, a tutti quei migranti che incontrerà sulla sua rotta. A bordo vi sono medici, così indispensabili per portare i primi soccorsi, ed è questa un’operazione congiunta sposata da Germania, Francia e Italia.
Ma l’isola di Lampedusa, da venti anni ad oggi, riesce ancora ad avere una sua normalità? E un ragazzino di dodici anni, come vive gli sbarchi dei migranti? Le loro tragedie? Il suo quotidiano è diverso da quello dei suoi coetanei che non sanno nulla di cosa voglia dire vedere sparsi sulle coste della propria isola cadaveri di uomini, donne, bambini? La sua vita è stravolta oppure riesce ad avere quella normalità che è propria di un quasi adolescente?
Sono tutte domande che pone Gianfranco Rosi nel suo film “Fuocoammare” che ha appena vinto la sessantaseiesima edizione dell’Orso d’Oro a Berlino, unico film italiano che è stato invitato a partecipare mentre era ancora in fase di montaggio a Lampedusa.
A Lampedusa, sì perché Rosi ha girato interamente e montato la sua pellicola nell’isola dove è stato per un anno intero, dove si è trasferito per conoscere bene ciò che poi ha magistralmente descritto nel suo documentario. L’opera, definita dal direttore della Berlinale Dieter Kosslick, “potente”, ha emozionato la giuria e Meryl Streep che ne è stata la presidente, ha dichiarato: “Parlo a nome del gruppo: siamo eccitati ed energizzati dal lavoro bello e importante che abbiamo visto e siamo orgogliosi di portarlo all’attenzione del mondo”.
Il regista ha voluto vivere le stesse emozioni, gli stessi drammi dei Lampedusani e dei migranti arrivati sulle coste italiane in condizioni terribili e ha voluto raccontare il dramma delle famiglie in cerca di pace, di serenità, di un avvenire migliore per i propri figli fuggendo da guerre, da soprusi, dalla disperazione.
Ha voluto raccontare una verità al di là delle riprese dei cronisti televisivi, diversa dalle immagini immediate e per questo riduttive di quello che è un esodo umanitario con tutte le sue conseguenze, con i suoi dolori di abbandono forzato della propria terra, dei propri familiari, della perdita dei propri figli, dei bambini rimasti orfani durante la traversata di quel mare troppo spesso relegato al ruolo di cimitero di corpi senza un nome, di anime senza un volto.
Gianfranco Rosi, per un intero anno immerso in quell’atmosfera di continuo allarme, ha voluto raccontare una normalità vista attraverso gli occhi e la vita di un bambino dodicenne, Samuele, che frequenta la scuola, ha l’hobby della caccia e gli piace giocare con la fionda in una dimensione temporale ormai desueta, quasi sconosciuta a chi non vive in una piccola isola. Ma Samuele è un bambino normale che vive in un mondo fatto di normalità, con i piedi per terra lui che non appena gira lo sguardo intorno vede solo mare, strada percorsa da migliaia e migliaia di persone, donne, uomini, bambini che sono solo migranti perché Lampedusa non è un luogo di arrivo ma un luogo di partenza, verso altri luoghi, verso altre speranze, verso vite più dignitose che altre nazioni possono offrire.
I Lampedusani lo sanno, sanno di essere i testimoni di una delle tragedie più grandi del nostro tempo e come isolani sanno cosa vuol dire trovarsi in difficoltà, trovarsi in mezzo al mare profondo, in pericolo, per scampare ad altri e forse più tremendi pericoli.
Sul tappeto rosso della Berlinale, il regista ha portato Pietro Bartolo, il medico che si occupa dei migranti che arrivano sull’isola e quando gli ha chiesto se c’era un motivo per cui i lampedusani sono così generosi, così ospitali, lui ha risposto: “Siamo un popolo di pescatori e i pescatori accettano tutto quello che viene dal mare. Quindi dobbiamo imparare a essere più pescatori anche noi”.
Meryl Streep sul regista neovincitore dell’Orso d’Oro, già titolare del Leone d’Oro al Festival di Venezia del 2013 con Sacro Gra, ha dichiarato: “I film sono tutti avvincenti. Ma la giuria è stata travolta dalla compassionevole indignazione di uno di questi. Un film che è riuscito a combinare politica e arte. Questo film va dritto al cuore di ciò che è la Berlinale, soprattutto adesso. Un libero racconto e immagini di verità di quello che succede oggi. E’ un film a carattere documentale urgente, visionario, necessario”.