“Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”

“Fu un’amica a noi cara che ci disse di essere stata poche sere prima a teatro e di avere pianto; non le succedeva da anni. Andammo a quel teatro e quel teatro era un carcere. Il carcere di Rebibbia, sezione di alta sicurezza”. Così inizia l’avventura di “Cesare deve morire”, il film che ha condotto Paolo e Vittorio Taviani non solo alla vittoria di un premio rilevante come l’Orso d’Oro al 62° Festival Internazionale del Cinema di Berlino ma a diventare il film italiano candidato all’Oscar, quello che correrà per entrare nella cinquina per il ‘Miglior film straniero’. Un film che si pone a metà tra documentario e finzione, settantadue minuti di pura poesia capaci di suscitare emozioni per molti ormai sopite. 

 
I due registi, spinti dal consiglio dell’amica, sono andati a visitare il carcere di Rebibbia e ad assistere ad uno dei tanti spettacoli che il laboratorio teatrale, seguito dal regista Fabio Cavalli, metteva in scena. Una ventina di detenuti della sezione di alta sicurezza (detenuti per mafia, camorra, ‘ndragheta, omicidio) leggevano alcuni canti dell’Inferno della Divina Commedia di Dante e li interpretavano con tutta l’angoscia e il dolore vissuti realmente ogni giorno sulla propria pelle, a causa dei sensi di colpa e del tormento della prigionia nel proprio personale inferno. 
 
È stata questa visione della sofferenza che ha fulminato ed emozionato in profondità l’animo dei due famosi registi e fatto nascere in loro la necessità e lo spirito del racconto. Hanno così proposto alla compagnia teatrale dei detenuti di creare un film che si basasse sulla preparazione e la messa in scena di un testo fondamentale nella storia del teatro, il Giulio Cesare di William Shakespeare, ma interpretandolo liberamente e conservando il dialetto di provenienza di ognuno. 
 
Tale operazione ha permesso al testo originario di assumere sfumature nuove e un realismo di un’originalità e una freschezza inaudite. Tra tutti i testi teatrali, i due registi hanno scelto proprio il Giulio Cesare, perché si tratta di una storia italiana di vigoroso idealismo e amore verso la Patria, e soprattutto perché tale testo ha la forza di mettere in luce temi sempre attuali, come l’amicizia, il tradimento, l’assassinio e il tormento che il carcerato è costretto a rivivere ogni giorno nella solitudine della sua esistenza.
 
Paolo e Vittorio Taviani hanno girato nel carcere di Rebibbia, scegliendo Cesare, Bruto, Cassio, Antonio, Lucio, direttamente tra i detenuti (dal talento strabiliante), grazie all’aiuto del loro regista interno, Fabio Cavalli, uomo di grande talento che ha anche interpretato se stesso nel film.
“Abbiamo cercato di mettere a confronto l’oscurità della loro esistenza di condannati con la 
forza poetica delle emozioni che Shakespeare suscita: l’amicizia e il tradimento, l’assassinio e il dissidio interiore delle scelte difficili, il prezzo del potere e della verità. Entrare nel profondo di un’opera come questa significa guardare dentro se stessi”. È in queste parole, espresse dai due registi durante la conferenza stampa del film (tenutasi al cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti, unico distributore del film), che risiede il senso profondo di “Cesare deve morire”, ossia nell’umanità svelata dei detenuti, che hanno messo in scena sul palco e, quindi sullo schermo, il “Giulio Cesare”, rendendolo tanto più potente grazie alla verità del loro vissuto di criminalità e di reclusione.
 
Attraverso la preparazione della messa in scena e lo studio del testo di Shakespeare, ognuno ha conosciuto una parte di sè, fino a quel momento celata.

Una scena in bianco e nero di Cesare deve morire 

E così la poesia delle potenti parole del grande vate s’incontrano con un vissuto contemporaneo dei più tormentosi, riempiendo il cuore dell’interprete e donandogli una forza e un’intensità quasi magiche. Negli occhi di Cesare, di Bruto, di Cassio si percepisce chiaramente una tristezza così intensa da far crollare ogni cinismo pregiudiziale dello spettatore. È come se l’arte purificasse dalle colpe e rendesse, per un attimo, tutti uguali, e soprattutto liberi dentro. Del resto anche la definizione aristotelica sottolinea la funzione educativa, di purificazione, catartica dell’arte.
 
“Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”, ha detto Cosimo Rega, interprete di Cassio, alla fine del film. Una frase significativa che rende evidente il valore libertario dell’arte in un contesto opprimente e annichilente: questo è il merito dell’opera cinematografica dei fratelli Taviani, un lavoro importantissimo, promosso da Fabio Cavalli, che da dieci anni ha la responsabilità delle attività teatrali nel penitenziario di Rebibbia. “Un’attività che coinvolge oltre 100 reclusi divisi in tre compagnie, che ha visto sfilare 22 mila spettatori e 13 produzioni teatrali, ospitate anche all’esterno. Ma in 10 anni – dice Cavalli – ho visto solo giornalisti di cronaca nera a cui interessavano più i reati che avevano commesso questi detenuti, che non la bellezza dello spettacolo in scena. I Taviani invece hanno gettato la luce dei riflettori su un mondo che pur esistendo da tempo, fatica a farsi conoscere. Ora possiamo invertire la tendenza a non capire che l’arte può annidarsi ovunque, perché è emblema della vita e l’unico elemento che riesce ad allineare tutti sullo stesso piano”.
 
Di là dalle scelte registiche perfette, come il bellissimo lavoro sul bianco e nero realizzato dal direttore della fotografia Simone Zampagni, che ha permesso di non scivolare nel naturalismo televisivo, o come la musica composta dal connubio di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, fatta di pochi strumenti come il sassofono e il corno, e supportata dall’orchestra, quel che resta di “Cesare deve morire” è l’emozione percepibile negli sguardi degli interpreti, consapevoli che, anche per loro, esiste una possibilità di redenzione. 

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