Sole, mare, terra. E poi: olio, vino, grano e ortaggi. Si potrebbe sintetizzare in poche parole l’insieme degli elementi che fanno della Puglia una regione di grande valenza turistica. Eppure sono in pochi a conoscere, con la giusta consapevolezza, l’enorme ricchezza racchiusa tra i confini di una terra immersa nel Mito e nella Storia, baciata dal sole e da una orografia perfetta per le coltivazioni. E ancora meno sono coloro che abbandonano la comoda autostrada adriatica per conoscere i numerosi percorsi che permettono di assorbire a pieni sensi un territorio dalle grandi valenze storiche unite a una millenaria sapienza enogastronomia.
E se i nomi di Lecce, Salento, Gargano, Tremiti, Barletta e Castel del Monte sono entrati a far parte del vocabolario del turismo, altrettanto non è ancora avvenuto con numerose altre realtà adagiate lungo il percorso che conduce alla punta estrema del Meridione d’Italia.
Come ad esempio i Campi Diomedei.
La leggenda narra che Diomede, valoroso acheo impegnato nella guerra di Troia, navigando per il mare Adriatico scoprì la foce del fiume Ofanto e lo risalì fino a trovare un luogo per lui ideale; qui utilizzò le pietre delle mura della città di Troia, che aveva portato con sé come zavorra, come cippi di confine per delimitare il territorio che battezzò Campi Diomedei. Portò con se anche dei tralci di vite, conquistati come bottino di guerra, e li piantò sulle rive del fiume, dando inizio a un matrimonio tra terra e pianta destinato a durare millenni. Nel corso dei secoli la terra battezzata da Diomede si è trasformata divenendo in epoca contemporanea luogo di grande richiamo turistico. Ma non ha perso del tutto il legame con “l’uva di Troia”, la cui origine potrebbe derivare dalle gesta dello sfortunato eroe omerico e che di sicuro rappresenta un caposaldo di quel “made in Italy” che da pochi decenni ha trovato il giusto riconoscimento da parte degli esperti e che conquista sempre più estimatori nel mondo.
Anche San Severo vanta quale fondatore l’eroe Diomede ergendosi a pochi chilometri dall’antico percorso della Via Sacra Longobardorum (in un’area costellata da ritrovamenti di epoca neolitica) e circondata da vigneti di “Nero di Troia” (oltre a quelli di Montepulciano e Sangiovese), a testimonianza di una sapienza vitivinicola che affonda le radici nei secoli.
La visita all’antica struttura labirintica medievale (viuzze strette e irregolari che affacciano su ampie piazze) fa rima con la degustazione del prezioso nettare nelle aziende che hanno saputo elevare il vitigno autoctono alla giusta posizione nella nobiltà enologica italiana.
Tappa importante nel percorso di scoperta di questo angolo di Puglia è rappresentata dai resti del feudo medievale di Castel Fiorentino, luogo di morte dell’imperatore Federico II. Il feudo sorge a pochi chilometri da Torremaggiore in un territorio tappezzata dai vigneti e dagli olivi e porge il destro all’imponente fortezza federiciana che domina il centro storico di Lucera, città foggiana che merita una visita anche per la degustazione nelle cantine del “Cacc’e Mmitte di Lucera” una doc che più di altri ha incontrato una grande rivalutazione da parte degli esperti e che si produce dal Nero di Troia, che caratterizza anche le altre due doc del territorio: Orta Nova e Rosso di Cerignola.
Superata Foggia, capoluogo dauno che accoglie nel tessuto urbano il “Palatium” federiciano (di cui sopravvivono soltanto il pozzo e il sontuoso archivolto lapideo del portale d’ingresso, inserito in un prospetto esterno del Museo civico Foggia ), si arriva a Canosa di Puglia (l’antica Canusium) entrando di fatto nell’Alta Murgia, considerato uno dei più antichi distretti vinicoli della Puglia.
In una città ricca di necropoli, templi paleocristiani, strutture magno-greche e romane e circondata da un territorio ricco di masserie (caratteristiche dimore padronali), jazzi per l’allevamento degli ovini e Poste (edifici recintati con muretti a secco) è possibile degustare nelle numerose cantine produttrici il “Rosso Canosa” e il “Castel del Monte”, due prestigiose Doc ottenute dal Nero di Troia, per poi dirigersi verso Andria che accoglie il maestoso Castel del Monte voluto da Federico II e dichiarato Patrimonio dell’Umanità Unesco.
Il percorso legato al vitigno di Diomede prosegue con la scoperta di Barletta, letteralmente dominata dai vigneti di Nero di Troia. La città ha accolto la celebre disfida medievale e custodisce il sito archeologico di “Canne” oltre al colosso Eraclio e al Palazzo della Marra. L’ultima tappa conduce infine a Trani, nel cui porto è possibile ammirare la Cattedrale dedicata a San Nicola e sulle cui spiagge è possibile godere la brezza marina e il sapore dolce del Moscato Reale.
Tornando ai vitigni, citata già da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, l’uva di Troia trovò in Marco Terenzio Varrone (I sec. a.C.), e nel suo trattato De re rustica un’ulteriore benedizione letteraria. L’autore latino descrisse le modalità di coltivazione della vite dei diversi popoli italici soffermandosi sul sistema in uso a Canosa, che prevedeva come sostegno il fico confrontandolo con l’uso diffuso settentrionale che preferiva utilizzare l’olmo. Nel 1854 vennero riportati cenni di impianti sperimentali di Uva di Troia. Castel del Monte, la zona litoranea tra Andria e Trani, Canosa, Barletta rappresentano oggi le aree vocate alla diffusione di un vitigno che l’imperatore Federico II di Svevia amava degustare e che i marchesi D’Avalos incrementarono nella coltivazione e nella produzione vinicola. Gli eventi storici però non portarono inizialmente fortuna all’uva coltivata in Gargano e nella Capitanata e quando i contadini iniziarono a preferire gli affidabili olivi al volubile vitigno, la vocazione territoriale cadde in disuso trascinando verso sud l’idea della trasformazione in vino dei grappoli neri.
Nell’area racchiusa tra le città di Barletta, Andria e Trani, l’uva di Troia trovò la sua nuova casa identificandosi con il territorio e contribuendo a “rafforzare” numerosi vini più deboli. “Uva di Troia” (grappolo più grande e tozzo) e “Summarello” (grappolo cilindrico più piccolo e inserrato con acini piccoli, coltivato quasi esclusivamente nell’area circostante Troia) identificano oggi le due varianti di un vitigno commercialmente noto come “Nero di Troia”.