Il regista Carlo Lizzani è morto suicida a Roma. Per la seconda volta, dopo Mario Monicelli, un cineasta che ha segnato la storia del cinema italiano, ha preso la decisione, coraggiosa e stoica, di gettarsi dal balcone di casa. Ha scelto la sua via di uscita a 91 anni, quando non aveva evidentemente più le forze per sopportare la vecchiaia.
Non solo la morte, accomuna i due registi italiani, ma la loro esistenza. Erano due grandi cineasti del dopoguerra italiano, che hanno lavorato per decenni alla rinascita del mondo cinematografico italiano, attraversando il neorealismo agli albori, e poi intraprendendo una loro personalissima carriera fatta di cinema di genere.
“La mia è stata una vita al servizio del cinema”, aveva detto qualche tempo fa Carlo Lizzani al giornalista Paolo d’Agostini. “Mi sono servito del cinema per conoscere il mio Paese, il mondo, la storia, il Novecento”.
Lizzani esordì come critico cinematografico sul finire degli anni ’30, collaborando alle riviste “Bianco e Nero” e “Cinema”, poi finita la guerra fu soggettista e sceneggiatore per Giuseppe De Santis con “Riso Amaro” (1947), poi per Roberto Rossellini in “Germania anno zero” (1948).
Non solo critica e sceneggiatura. Nel 1951 Carlo Lizzani passò alla regia con Achtung! Banditi!, esperimento produttivo anticonformista per l’epoca, per cui ven-ne fondata una cooperativa ad hoc e che vedeva la ribellione di operai e partigiani di Genova ai nazifascisti. Questa sua prova da regista non terminò con il primo film, una filmografia composta di oltre sessanta titoli, tra film importanti e film d’occasione, tra film per il grande schermo e, negli ultimi tempi, film televisivi, tutti concentrati sulla ricerca del passato recente del fasci-smo e della Resistenza.
Dopo l’esordio ricordiamo “Cronache di poveri amanti” (1954), “Lo svitato”, con Dario Fo (1956). Nel 1960 fu poi la volta de “Il gobbo”, a cui seguì “L’oro di Roma” (1961) e “Il processo di Verona” (1963).
Nel 1964, la sua attenzione alla condizione della società del boom economico gli fece dirigere uno dei suoi film migliori: “La vita agra”, dal libro di Luciano Bianciardi.
L’attualità lo spinse poi a realizzare, con uno stile tutto suo, “Svegliati e uccidi” sul “solista del mitra” Luciano Lutring e la sua banda (1966), “Barbagia” su Graziano Mesina (1969), e ancora, “Mussolini ultimo atto” (1974), “San Babila ore 20” sul neosquadrismo sanbabilino (1976), e “Fontamara” (1977).
Nel 1984 si concentrò con “Nucleo zero”, sulle derive terroristiche di sinistra, mentre nel 1986 fu la volta di “Un’isola”. Il suo spirito di storico del cinema gli suggerì di ricostruire la lavorazione di “Roma città aperta in Celluloide” (1996) e infine, una delle ultime pellicole dirette da Lizzani, “Hotel Meina” nel 2007.
Carlo Lizzani, soprannominato il “Signore del cinema italiano”, era un uomo pacato, intelligente e gentile che ascoltava a e osservava la realtà con una sensibilità unica.
Non solo regista, non solo scrittore, fu direttore della Mostra del Cinema di Venezia dal 1979 al 1982 e fu inoltre, uno storico metodico e curioso che ha affrontato la storia.
La sua raccolta di scritti “Attraverso il Novecento” e “Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, ne sono la palese conferma.
In particolare quest’ultima: un’autobiografia intellettuale e artistica con cui Lizzani ripercorre la sua lunga, bella vita di militante del cinema e della passione politica che lo ha legato al Partito Comunista, fino al 1957, e poi, sempre, alla sinistra, in un pacato, tranquillo dibattito critico.
In questi giorni di lutto del cinema italiano, già privato dalla scomparsa di Giuliano Gemma in un incidente stradale, unanime la reazione degli amici e dei colleghi, fra sorpresa e commozione: nessuno se l’aspettava.
In casa, Lizzani ha lasciato un biglietto: “Stacco la chiave”.
Tante le personalità che hanno espresso il loro enorme dispiacere, dal regista Ettore Scola al Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano: “La tragica notizia della morte di Carlo Lizzani mi addolora profondamente, per l’amicizia che ci legava da molti decenni e per tutto quel che ha saputo dare al cinema, alla cultura, allo sviluppo democratico del nostro Paese: coraggio e passione della battaglia per la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, nella ferma valorizzazione e difesa dei valori della Resistenza, nella creazione artistica – ha detto il capo dello Stato – sempre radicata nella realtà e nei travagli della nostra Italia”.
Anche il regista Pupi Avati ha usato toni simili: “Ha creduto nel cinema fino in fondo, nonostante tutto” e l’attore Giancarlo Giannini: “Se n’è andato un amico e un maestro, una persona di grande intelligenza e vitalità che amava il cinema e i suoi attori. Viene a mancare un grande amico e un grande uomo, di cultura straordinaria. È una perdita gravissima e, soprattutto dopo la scomparsa di Gemma, si rimane stravolti”.
Il regista Ugo Gregoretti ha ricordato “la freschezza e l’entusiasmo quasi di un debuttante pure nel rapporto umano che aveva, anche se per quest’ultimo aspetto lo conoscevamo poco perché Lizzani, come si sa, era molto riservato. C’era tra noi un particolare rapporto e per la sua età lo consideravo un po’ un fratello maggiore. Sapevo dei tanti problemi che affliggevano la sua vecchiaia, anche se al lavoro non era affatto così. Abbiamo fatto insieme un film nel 2011, ‘La scossa’, ed è stata un’esperienza sorprendente perché ciascuno di noi spiava amorevolmente l’altro e Lizzani meravigliava per la serenità, la lucidità, la padronanza del mezzo”.
“L’avevo sentito poco tempo fa – ha raccontato il regista e attore Giuliano Montaldo – e mi parlava del suo nuovo film tratto dal libro di Andreotti (“Operazione via Appia”, ndr), per cui finalmente aveva trovato i fondi. Era sempre lui, ironico, spiritoso. Sapevo che aveva avuto dei problemi di cuore ma sembravano risolti”.
Addio a Carlo Lizzani, con lui muore la generazione più brillante del cinema italiano, quella del neorealismo.