Alessio Di Clemente si è diplomato nel 1994 al centro sperimentale di cinematografia di Roma. Membro dell Actor’s Center di Michael Margotta, coach dello Strasberg Studio di New York. Ha studiato per due anni il Meisner Method a Los Angeles, due anni di canto lirico col maestro Rufini a Roma.
Quasi sessanta spettacoli all’attivo in teatro tra Italia, Austria e Scozia. Più di trenta tra film, corti e serie televisive. Insegna al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma ed è responsabile della formazione per attori al Csc di Milano.
 
Alessio, quale è stato il primo momento in cui ha deciso che avrebbe fatto l’attore?
In realtà non credo che si decida di fare l’attore. Qualcosa si è, non si fa. Altrimenti si è sbagliata strada fino dal primo approccio. Non posso non ricordare che fin da piccolissimo facevo le imitazioni dei personaggi televisivi e guardavo i film da grandi il lunedi sera, unica possibilità della settimana per vederli sull’unico canale allora disponibile.
Quando i ragazzi mi chiedono come possono capire se la recitazione, parola orribile, può essere il loro futuro, rispondo sempre: “Dipende se è un bisogno, un’urgenza, per voi. Se lo è, allora dateci dentro!”.
 
Il personaggio più interessante che ha incarnato.
Senza dubbio il Pablo di “Suerte”. E’ il “mio” lavoro. L’ho tratto da un romanzo di successo, l’omonimo “Suerte”, di Giulio Lauren. L’ho smontato, riscritto, diretto e interpretato. Sono solo in scena, lavoro come voglio io, con coraggio e prendendomi i miei rischi. Nessuno mi distribuisce, i teatri si passano il mio monologo perché piace. Dalla Sardegna alla Campania ho ricevuto complimenti ovunque e mail dei teatri che mi ringraziavano da parte degli spettatori. 
 
Quando sento una signora di mezz’età, che è uscita da casa dopo una giornata di lavoro domestico dire: “Grazie, lei ci ha fatto “vedere” un film; mi piace molto come lavora”, allora capisco che sono sulla strada giusta e sono ripagato dei tanti sacrifici che la mia scelta di vita artistica  comporta.
 
Mi descriva lo stato dello spettacolo italiano e del cinema in particolare.
E’ difficile per me parlare di qualcosa dalla quale mi sento profondamente scollegato.
Non parlo di talento, naturalmente. In Italia, come ovunque, ci sono tantissimi attori di talento. Parlo di scelte. Il nostro è il Paese della commedia dell’arte, della farsa.
Ciò ha influenzato pesantemente il nostro modo di recitare.
 
Non si privilegia quello che un grande attore americano mi suggerì una volta su un set, cioè l’onestà. Si cerca sempre l’effetto e se va bene troviamo la quotidianità. Ma questo non è essere creativi, la gente non paga il biglietto per venire a vedere le cose vere che vede ogni giorno nella vita. Lo spettatore vuole essere trasportato nel sogno e vedere cose che raccontano una verità, sì, ma in modo straordinario, non ordinario.
 
Per fare questo bisogna capire che non si può partire dalle emozioni, ma dalle azioni interiori.
Ma forse, perdonatemi, sto diventando troppo tecnico. Ne risultano film descrittivi e interpretazioni veritiere, ma poco interessanti. Salvo rare eccezioni.
 
Qual è la soluzione o il percorso strategico che indicherebbe per rimettere in moto il cinema come industria?
Il problema è sociale. L’espressione artistica è figlia del dolore, del disagio. Se non si ha niente che ci fa male dentro e che vogliamo urlare fuori, che cosa possiamo mettere in comunione con chi ci guarda e ascolta? Lo pensiamo come un lavoro: c’è gente che fa questo mestiere per la fama, per i soldi, per gli autografi o per altre cose che scendono ancora più in basso. Non ha senso, ripeto: è urgenza interiore, innanzitutto.
 
In Italia abbiamo la pancia troppo piena, stiamo comodi. Un grande regista lituano diceva che la loro migliore produzione artistica era fiorita quando avevano i carriarmati russi per le strade. La ricerca e la necessità di nuovi linguaggi sono il solo pungolo per trovare una spinta creativa nuova. Qui stagniamo scopiazzando successi altrui, tanto tutto si trascina e, in fondo, interessa a pochi il livello professionale che raggiungiamo.
Però poi non ci lamentiamo se siamo gli unici che difficilmente varcano i confini internazionali del cinema. Salvo, ripeto, rare eccezioni.
 
Perchè ha deciso di insegnare? Non porta via tempo alla recitazione?
Ho deciso d’insegnare perché ho studiato negli Stati Uniti il metodo Meisner e ho il sogno di vedere i nostri ragazzi raggiungere il livello di profondità creativa di quelli americani, inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, russi. Ma devo confessare che, incredibilmente, trovo delle resistenze culturali innanzitutto nei ragazzi. Probabilmente sto inseguendo qualcosa per il quale il Paese non è ancora ricettivo. A parte eccezioni, vedi Rossi Stuart, per citarne uno dei pochi, che però confermano la regola.
 
Come è strutturata la sua masterclass?
Il mio lavoro parte dalla scoperta del mondo sensoriale del personaggio e corre fino alla costruzione fisico psichica del ruolo. E’ molto impegnativo e richiede coraggio e spirito di sacrificio, ma di solito ci leviamo tutti delle grandi soddisfazioni.
 
Alla fine dei miei laboratori poi metto sempre in scena qualcosa, in collaborazione spesso con il Festival di Drammaturgia Contemporanea di Viterbo “Quartieri dell’Arte”, gestito magistralmente da quel grande uomo di teatro che è il direttore Gian Maria Cervo.
Non a caso uno dei pochi che la drammaturgia la intende come interscambio creativo a livello internazionale.
 

Receive more stories like this in your inbox