In genere le città di oggi non rispettano le memorie. Vengono regolarmente tradite dai miti della modernità, caos di macchine, edilizia selvaggia, marea di visitatori che ne stravolgono ritmi e volto. Venezia, la città fondata sull’impossibile, come la definì Jacopo Sansovino, difesa sia pure sempre più fragilmente dalle acque della laguna, è per la sua eccezionalità l’unica città, (qualche dettaglio di realtà certo è mutato), a conservare intatto il fascino da sempre esercitato su tutti quelli che vi sono transitati. L’architetto Leonardo Benevolo nel suo libro “Venezia il nuovo piano urbanistico” (edizioni Laterza), ipotizzava già qualche anno fa una modernizzazione della città lagunare mediante un piano di collegamento a Mestre e Marghera. Una sfida destinata a suscitare aspre polemiche in quanti continuano a vedere la città come uno straordinario museo galleggiante.
Se l’antica forma urbis che pure ha funzionato per più di 1000 anni è “come un uragano che dal centro della laguna disperde tutto ciò che le sta intorno” (Benevolo), non è impresa da poco progettare e realizzare una città a due poli, acqua e terra, capace di combinare in sè memoria ed innovazione, conservazione dei valori culturali e sviluppo delle potenziali risorse.
In attesa di una Venezia del futuro, rituffiamoci con una vena di nostalgia nella Venezia di oggi, vivibile nel suo splendore quando termina la quotidiana marea di turisti e le luci del tramonto divampano rosse dietro la Chiesa della Salute. Allora è tempo di un giro in gondola, contemplare le facciate dei palazzi, le ogive ed i marmi che sembrano sorgere dalla Laguna per uno strano miracolo. Il Palazzo dei Dogi appare la più raffinata moschea d’Occidente, al cui interno i quadri di Tintoretto e Veronese sono racchiusi come in uno scrigno e tutta la città è così lontana e diversa, così orientale nella sua posa da odalisca. Lentamente si insinua e ci penetra un senso di rivelazione che diventa emozione e sperdimento. A scrivere di Venezia si rischia sempre il luogo comune, l’insufficienza della parola, l’artificio della retorica.
Marcel Proust, il celebre autore dei 7 libri che compongono la sua opera maggiore “A la Recherche du temps perdu”, quasi a prendere le distanze da tanta struggente bellezza, preferì subito stabilire un confronto con l’umile Cambrai della sua infanzia, descrivendo le sensazioni simili e opposte legate a questi due diversissimi luoghi. Ambedue paesi dell’anima, su cui costruisce la sua scrittura, ma nutriti di luoghi veri, reali, conosciuti. ì Per non perdersi definitivamente fra i “palazzi di porfido e diaspro”, lo scrittore francese elesse a sua guida l’amatissimo Ruskin e, preso quasi per mano dal maestro, riuscì a sopportare “i segreti di quella città d’Oriente”. Impregnato delle splendidi intuizioni, sperimentò un’esperienza della bellezza, che ebbe su di lui un effetto di totale stordimento, quasi vivesse un magico sogno.
Il soggiorno di Proust a Venezia, molto desiderato e a lungo rimandato, oltre che nell’Epistolario, viene descritto soprattutto nel sesto libro della Recherche, “La Fuggitiva”. Ma già nel primo volume della sua monumentale opera “Dalla parte di Swann”, un viaggio a Venezia è uno dei sogni del narratore bambino. A ostacolarne la realizzazione intervennero la malattia e la passione per Albertine, che poi diventa possibile quando Albertine è morta e la passione dimenticata.
Nella realtà dei fatti Proust avrebbe dovuto raggiungere Venezia nell’estate del 1899, dopo aver passato le acque ad Evian, ma non avendo trovato qualcuno che lo accompagnasse, riuscì a raggiungerla soltanto nella primavera dell’anno dopo. Marie Nordlinger, che con suo cugino Reynaldo Hann lo raggiunse nella città lagunare così scrive: “Fu in un radioso mattino di maggio che mia zia, Reynaldo e io vedemmo Marcel e sua madre arrivare a Venezia”. E già nel pomeriggio, seduti ad un tavolino del Caffè Quadri, lui e Marie lavorarono su una traduzione della Bibbia di Amiens, opera fondamentale per la comprensione del gotico.
Alloggiavano Proust e la madre all’Hotel Danieli dalle finestre a ogiva, aperte sulla visione di S. Giorgio Maggiore, sulla Giudecca e in lontananza sulle basse e sabbiose dune del Lido, nello stesso albergo dove, in una camera d’angolo, la numero dieci, George Sand ed Alfred De Musset vissero una torrida storia d’amore. Di giorno si spostavano in Piazza San Marco, solo 200 metri più in là. Il breve percorso lo facevano in gondola “così che la Chiesa -scrive – non mi si presentava solo come un monumento, ma come la meta di un percorso sull’acqua marina e primaverile, che per me faceva con San Marco un’unità indivisibile e viva”. Apprendiamo dalla biografia di Painter che la facciata della Basilica, appena arrivato stanco dal viaggio e suggestionato da un’eccessiva immaginazione, gli apparve subito un po’ meno simile all’intarsio di perle e rubini a cui Ruskin l’aveva paragonata. Ma quando scese nelle calli, dopo un sonnellino pomeridiano, “immaginazione e realtà si erano ormai fuse”.
Lo scrittore si fa sorprendere, avvincere dalle emozioni : “Si entrava, mia madre ed io, nel Battistero, mettendo il piede sui mosaici di marmi e paste vitree del pavimento, avendo di fronte a noi le lunghe arcate cui il tempo ha flesso le superfici svasate e rosee conferendo alla chiesa, dove ha rispettato la freschezza di quei colori, l’apparenza di esser composta di una materia dolce e malleabile come cera d’alveoli giganteschi e dove gli artisti l’hanno traforata e lumeggiata d’oro, d’essere la preziosa rilegatura, in qualche cuoio di Cordova del colossale Evangelio di Venezia”.
Al crepuscolo amava andare in gondola con i suoi amici e Reynaldo cantava versi di Musset musicati da Gounod. I Palazzi sul Canal Grande gli apparivano allora come una scogliera di marmo… abitazioni che facevano pensare a luoghi naturali, ma di una natura che avesse creato le proprie opere con un’immaginazione umana”.
Ma è soprattutto la Venezia notturna, esplorata perdendosi nell’intrico delle calli, ad affascinarlo di più. Scrive ancora nella Fuggitiva: “La sera uscivo da solo nella città incantata perdendomi fra sentieri sconosciuti come un personaggio delle Mille e Una Notte. Era rarissimo che non mi avvenisse di scoprire per caso, durante la mia passeggiata, qualche piazza sconosciuta e spaziosa, di cui nessuna guida, nessun viaggiatore mi aveva parlato. Ero penetrato in un intrico di straducole, di calli.
D’improvviso, in fondo a una di quelle stradette, pareva che nella materia cristallizzata si fosse prodotta una distensione. Un vasto e sontuoso Campo che in quella rete di stradicciole certo non avrei saputo immaginare di tanta importanza e al quale non avrei saputo dare spazio, si estendeva dinanzi a me, circondato da bei palazzi, pallido al chiaro di luna”. Ritorna invano il giorno dopo a ricercare la bella piazza notturna, l’intrico delle calli lo disorienta e alla fine pensa di averla solo sognata.
Venezia: quanti scrittori, poeti si sono provati a decifrare il suo mistero. E quante Venezie! È il sogno da mille e una notte dell’universo proustiano, è l’ubriacatura sdolcinata di Truman Capote, “Venezia è come mangiare tutta in una volta una scatola di cioccolatini al liquore”, è la città svenduta, l’osceno bazar descritto da Regis Debray nel suo violento libello. Venezia splendida e ridente nel sole e nei colori, Venezia malinconica e decadente nella nebbia, Venezia fragile ed eterna. Non si finirebbe mai di descriverla. Si potrebbe concludere ricordando un concerto nella sala ovale di Palazzo Correr. Alle spalle dei giovani musicisti che interpretavano un quartetto di Schubert, il celebre gruppo in marmo di Antonio Canova con Orfeo, marito sventato per troppo amore, ed Euridice destinata da quel precoce sguardo a divenire la Regina degli Inferi. In quella scultura c’era la sorte di Venezia regina del mare corrosa dai veleni, rovinata dallo sconsiderato passaggio delle grandi navi e dalle orde dei nuovi barbari, destinata come Euridice, per troppo amore o per somma sventatezza, a sprofondare negli abissi marini.
A fine concerto, ecco piazza San Marco finalmente pacificata e quasi deserta, la facciata della Basilica illuminata dalla tenue luce dei lampioni. Diffuse nell’aria, come un eco lontana, le note di un valzer viennese, disfatte e quasi polverizzate dal lieve sovrapporsi di due orchestrine che suonavano al Florian e al Caffè Quadri. E i pochi avventori di quell’ora notturna sembrarono anch’essi così lontani, naufraghi approdati per caso da chissà quali mondi a quei tavolini semivuoti. A Venezia, il tempo si era fermato, come per incanto.