Dagli studi di Egittologia alla regia in presa diretta di Savona: la rivoluzione della piazza Tahrir che non dormiva mai
Secondo anniversario della rivoluzione che in Egitto ha fatto cadere il governo di Hosni Mubarak. Una vittoria faticosa, vinta grazie al popolo de Il Cairo che il 25 gennaio 2011 è sceso in piazza Tahrir, presenziando giorno e notte fino alla caduta di Mubarak. Tahrir Square diventa così il simbolo della necessità di libertà e di spazio politico da parte dei cittadini egiziani. Quello che è venuto dopo è visto in maniera contraddittoria, sia fuori sia dentro l’Egitto.
Dopo che, l’11 febbraio Mubarak lasciò il potere, gli successe un governo militare provvisorio, che guidò il Paese fino alle prime elezioni post rivoluzione, nel giugno 2012, dove ad averla vinta, fu Mohamed Morsi, leader del partito dei Fratelli Musulmani, il movimento integralista forse più antico e autorevole del mondo sunnita. Un partito intransigente ma forse non così fondamentalista come immaginiamo. Il presidente Morsi, in prima battuta, ha mostrato apertura all’estero e una buona capacità di mediazione, ma il popolo egiziano non ha smesso di protestare per la costituzione di un Egitto democratico. Morsi ha così sospeso la Corte Suprema e ogni altra autorità, impossessandosi di tutti i poteri.
Il vicepresidente Mekki ha preso le distanze dal presidente dando le dimissioni e l’Esercito ha mostrato la sua potenza facendo capire che i militari potevano riprendere in mano la situazione da un momento all’altro. Morsi nel frattempo, ha sostituito il Ministro dell’Economia e quello degli Interni, accusati di essere troppo deboli nel difendere il governo. Ha rafforzato i limiti alla stampa e, soprattutto, consentito alla polizia l’uso delle armi contro la folla. Di recente sono stati più di cinquanta i manifestanti uccisi.
“Tahrir, Liberation Square” ha vinto il David di Donatello 2012
“Tahrir, Liberation Square” ha vinto il David di Donatello 2012
Un bilancio vergognoso per chi afferma di voler difendere la rivoluzione pacifica di piazza Tahrir. Il Paese è in trepidazione: chi nel 2011 ha affrontato la morte per far cadere la dittatura, oggi non si accontenta di parvenze di democrazia.
In molti hanno documentato questa rivoluzione: giornalisti, documentaristi, filmaker, tutti erano presenti al momento della rivoluzione e i telegiornali di tut-to il mondo ci hanno informato a dovere. Poi però è arrivata “Tahrir, Liberation Square”, e si ha l’impressione di non aver mai visto niente di simile.
Il regista Stefano Savona è stato dieci giorni e dieci notti nella piazza de Il Cairo, ha sopportato il freddo, la fame e la stanchezza con i protagonisti stessi della storia. Così facendo, ha realizzato una cronaca in tempo reale della rivoluzione, seguendo in particolare tre tra milioni di manifestanti, due ragazzi, Ahmed e Elsayed e una ragazza, Noha, che vivono nelle tende a Tahrir Square e non abbandonano la piazza, per nulla al mondo.
Savona ha pedinato letteralmente Nora, Ahmed, Elsayed. Li ha ripresi mentre discutono di democrazia e cercano di creare una costituzione dell’Egitto, mostrando la vita di un popolo, quello egiziano, straordinariamente compatto, vivace, incontenibile nella sua energia e nell’illusione di un futuro democratico. Novanta minuti di inedita passione, dibattiti e vita nella piazza, tutti sono eroi e tutti sono eroine, tralasciando volutamente i sanguinari scontri che ovviamente esistono, ma che diventano solo uno scenario storico.
Vincitore del David di Donatello 2012 e del Nastro d’argento nel 2012, il film di Stefano Savona ha partecipato in selezione ufficiale ad alcuni fra i più importanti Festival del mondo fra i quali la Viennale 2011, il DocLisboa 2011 e il Festival di New York. “Tahrir, Liberation Square” è stato presentato anche alla Casa del Cinema di Roma in occasione del Doc/it Professional Award in qualità di film in concorso per diventare il Miglior Documentario Italiano dell’Anno. Noi de L’Italo Americano c’eravamo e abbiamo avuto il piacere di intervistare il regista Stefano Savona.
Stefano Savona
Stefano Savona
Come è nato il documentario?
La mia passione per l’Egitto nasce quando, vent’anni fa, studiando egittologia all’Università, ho visitato l’Egitto. È stato uno shock conoscere quel paese nel 1991, ed è stato lì che ho capito che il mio destino non era l’archeologia ma quello di raccontare storie. La mia vocazione di documentarista è nata lì. Per questo motivo ho sempre sentito il bisogno di tornare in Egitto, per riflettere, per prendere ispirazione ma, non ero mai riuscito a trovare l’idea giusta per una storia sull’Egitto, fino a Tahrir.
Perché ha deciso di raccontare questa rivoluzione?
Quando la rivoluzione è iniziata, non potevo evitare, non potevo sottrarmi a questo progetto. In più fare un film sulla rivoluzione era un altro dei miei sogni, perciò era inevitabile che appena saputo dello scoppio della rivolta, sia partito. Sono arrivato il 5° o 6° giorno della rivoluzione; ho portato con me la macchina fotografica più piccola che avevo per non dare nell’occhio ma, grazie al caos del momento, la polizia non mi ha bloccato e sono arrivato diritto verso la mia meta: piazza Tahrir.
Come è nato il rapporto con i rivoluzionari e perché ha deciso in particolare di raccontare tre ragazzi?
Quando sono arrivato nella piazza, sembrava che il più era fatto, ma in realtà non era così; dovevo capire come volevo raccontare questa storia, cosa volevo aggiungere a un fatto storico che già in moltissimi, giornalisti e non, stavano narrando. Il mio punto di vista, in quanto italiano, sia pure appassionato di Egitto, non era abbastanza, dovevo quindi incarnare il mio sguardo in quello di alcuni protagonisti del luogo. Dovevo raccontare come le persone hanno fatto questa rivoluzione, come l’hanno vissuta. L’obiettivo era di mettersi accanto ai personaggi e vivere le loro emozioni, desideri e paure. Ho incontrato subito i tre protagonisti, i primi che avevo istintivamente voglia di seguire, li ho seguiti. Inizialmente è stato tutto istintivo, non potevo riflettere a lungo. Sono stato fortunato perché le esperienze dei miei precedenti documentari mi hanno dato la razionalità necessaria per prendere le decisioni giuste. In due settimane ho quindi fatto il film che avete visto.
Come è stato fare un film a presa diretta sul reale? Aveva un’idea prima di iniziare?
No. E non era facile averla, perché in quel momento, come dicevo, è l’istinto a muovere le tue azioni. Al tempo stesso, però, devi essere in grado di restare concentrato, nonostante i rischi, sullo specifico del lavoro, mettere a fuoco, avere un buon audio, seguire le persone giuste, immaginarsi il montaggio. Il film è stato girato in assoluta solitudine, quindi suono, immagine, regia, rispondono al tentativo di fare qualcosa che valga il rischio.
Come ha convissuto con la consapevolezza di rischiare?
I rischi fanno parte del gioco. Il vero rischio cosciente è quello di non riuscire a fare il film. Il rischio fisico diventa una stupidaggine se poi non riesci a raccontare la tua storia.
Nel documentario si nota un interesse maggiore per la piazza e i protagonisti, più che per gli scontri violenti con la polizia. Perché?
Avevo capito fin dall’inizio che quello che mi interessava era il movimento di ribellione degli uomini della piazza, quello che pensavano e che stavano vivendo. Gli scontri erano la parte meno interessante, perché uno scontro è uguale a qualsiasi altro. I momenti di confronto e di discussione sono forse la parte più importante di tutto il film. La piazza non andava mai a dormire e la sera, al termine degli scontri ovunque ti girassi c’erano dibattiti continui. Ognuno parlava di cosa si doveva fare per il Paese, ognuno si confrontava sui grandi temi dell’Egitto, e questa è la cosa fondamentale. Ogni notte vedevi cittadini egiziani che per decenni non avevano potuto esprimersi per la paura di essere puniti, e che finalmente si riappropriavano di uno dei diritti fondamentali dell’uomo, è stato come vederli respirare di nuovo.
Pensa che il popolo italiano sia in grado di ribellarsi come è successo in Egitto?
Se la rivoluzione è stata plausibile in Egitto lo sarebbe dovunque. Però in Italia, il benessere e l’idea democratica che ci governa, fa sentire meno la necessità di scendere in piazza.