Chissà cosa avrebbe da dire Niccolò Machiavelli dopo l’esaustiva e dettagliata ricostruzione di Marco Travaglio a proposito della trattativa tra Stato e Mafia, iniziata nel periodo delle stragi del 1992-’93.
Perché lì il confine tra corruzione e ragione di Stato giunge davvero al suo limite, anche se, per essere precisi, spesso è stato oltrepassato a favore del primo. 
 
Questa è la riflessione che si estrapola da “È Stato la Mafia”, spettacolo teatrale, diretto da Stefania De Santis e scritto e interpretato dal giornalista Marco Travaglio, in scena a Roma alla Sala Umberto. Tre ore di inchieste, intervallate dalle letture dei grandi uomini del passato come Pasolini, Gaber, Pertini, Calamandrei, affidate alla voce dell’attrice Isabella Ferrari. 
 
Undici date fino al 6 ottobre per raccontare la storia della trattativa fra Stato e Cosa Nostra, avviata nel 1992 e proseguita fino ad oggi; una trattativa che ha trasformato la storia politica italiana.
Che cos’è questa inchiesta? Per chi non lo sapesse, l’Italia, terreno fertile per le associazioni criminali di stampo mafioso, ha visto, non di rado, delle sotto-alleanze tra Stato e Cosa nostra.
 
Una trattativa iniziata vent’anni fa, dice Travaglio, e che ancora oggi si cerca di insabbiare, nonostante le confessioni e le polemiche incandescenti che proprio in questi giorni portano il Quirinale in tribunale.
Tutto ha inizio il 12 marzo del 1992 quando la mafia ordina di uccidere, Salvo Lima, il potentissimo proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia. La sua morte è il primo avvertimento da parte dei mafiosi allo Stato, perché questo aveva tentato di metterle i bastoni tra le ruote, condannando all’ergastolo più di 400 persone per reati legati alla criminalità organizzata. 
 A Roma le repliche dello spettacolo teatrale di Marco Travaglio

 A Roma le repliche dello spettacolo teatrale di Marco Travaglio

Dopo Lima, gli obiettivi della Mafia sono parecchi: l’onorevole Calogero Mannino in primis, poi Carlo Vizzini, Ministro delle Poste, il Ministro della Giustizia Claudio Martelli, il Ministro della Difesa Salvo Andò e, dulcis in fundo, Giulio Andreotti. 
 
Nella ricostruzione, uno spaventato Mannino, per salvarsi la pelle, si sarebbe accordato con il generale Antonio Subranni, capo del Ros dei Carabinieri (Rag-gruppamento operativo speciale), e con il capo della polizia Parisi per “aprire” un contatto con cosa nostra ed arrivare a un accordo.
 
La mafia, per tutta risposta, decide di far sentire ancora più alta la sua voce. Ma questa volta, non colpendo i politici (che avevano già dato segno di avvicinamento), ma quello che era (a ragione) considerato il reale ostacolo alla corruzione della giustizia: il 23 maggio del 1992 fa saltare in aria il giudice Giovanni Falcone a Capaci. 
 
Dopo questa storica strage, che scosse l’intero mondo, i carabinieri del Ros, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, avrebbero contattato l’ex sindaco Vito Ciancimi-no per cercare di arrivare a Totò Riina, il capo dei capi.
 
Dietro ai carabinieri, che negli anni hanno detto di aver agito di loro iniziativa, vi erano (almeno) tre persone secondo l’inchiesta di Travaglio: il Ministro della Giustizia Claudio Martelli, il direttore degli Affari Penali Liliana Ferraro, sostituta di Falcone, e il presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante. 
 
Da sottolineare che questi tre “uomini dello Stato” hanno sostenuto per 17 anni di non sapere nulla di tali fatti. Tre anni fa però, il figlio di Vito Ciacimino ha confessato rapporti indicativi tra loro e suo padre. 
Tornando al passato, tra i corridoi del Palazzo iniziava a spargersi la voce della richiesta di trattativa da parte dello Stato alla Mafia. L’unico che mostrava la sua totale avversione era Paolo Borsellino: il 19 luglio del 1992, mentre va a trovare sua madre a Palermo, in Via D’Amelio, scoppia un’autobomba che causa la seconda storica e drammatica,  strage di cosa nostra.
 
Ecco allora che Totò Riina, il capo dei capi, trova tempo per stendere il suo “papello” con le complete e ingorde richieste di cosa nostra, tutte volte a facilitare la vita dei criminali. Anche Riina però, ha le ore contate e a gennaio del 1993, viene catturato dai carabinieri del Ros i quali, inspiegabilmente “si dimenticano” di perquisire il suo covo. Più tardi verranno assolti perché “il fatto non costituisce reato”.
Nel frattempo il nuovo premier Giuliano Amato, nomina Nicola Mancino Ministro degli Interni. Sotto il suo ministero, resterà libero per molto tempo il nuovo capo in carica, il corleonese Bernardo Provenzano.
 
Non solo, ci furono allora i maggiori responsabili della carcerazione, per vent’anni, di un falso colpevole della strage di via D’Amelio. Il prigioniero era stato messo dentro al posto di Gaspare Spatuzza, il sicario di cosa nostra, il quale, pentitosi nel 2008, ha confessato le sue colpe.
 
Ad ogni modo, nonostante gli avvenimenti, la mafia non abbassò il tiro e organizzò un attentato, fallito questa volta, al giornalista Maurizio Costanzo a Roma, e poi mise una bomba in via dei Georgofili a Firenze, per mano di Spatuzza, causando 5 morti e 48 feriti.
 
Sotto il Presidente Oscar Luigi Scalfaro iniziarono a vedersi le prime grandi mosse: vengono improvvisamente sostituiti tutti i vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel 1993, dopo le bombe, 441 mafiosi rinchiusi con il carcere duro vengono trasferiti in regime di “normalità” carceraria. 
La mafia inizia a placarsi. 
 
A questo punto, secondo la ricostruzione di Travaglio, si sa-rebbe tornata ad insinuare cercando nuovi referenti. 
Il giornalista getta poi ombre su Marcello Dell’Utri, amico di Bernardo Provenzano, dirigente di Publitalia ’80, presidente di Fininvest e fondatore, insieme a Silvio Berlusconi, di Forza Italia.
Ancora oggi però, lo Stato nega di avere avuto rapporti e men che meno alleanze con cosa nostra.
Probabilmente i colpevoli non verranno mai puniti come meriterebbero e questo avviene perché potenti dello Stato, li proteggerebbero. Questo emerge-rebbe dall’ultima intercettazione telefonica tra Mancino e Loris D’Ambrosio, consigliere dell’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, oggi chiamato a testimoniare in aula a Palermo davanti al pm Nino De Matteo.
 
Come si legge nella prima pagina della sentenza con cui il collegio giudicante di Firenze, nel marzo 2012 aveva condannato una quindicina di boss per la strage di via dei Georgofili:
“Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”.
 
E allora di cosa si tratta? Di ragion di Stato o corruzione politica? Questo è, secondo lo spettacolo “È Stato la Mafia”, il dilemma amorale che ancora ci tormenta.

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