L’inchino davanti all’Ultimo Imperatore bambino che, illuminato d’oro nell’oscurità, proietta la sua ombra verso il pubblico. Il bianco e nero che ritaglia le figure di James Woods e Robert de Niro sopra il ponte di Brooklyn in C’era una volta in America. Balla con i Lupi che si tinge la guancia con i colori dei Sioux. Lo sguardo seducente di Sean Connery che punta la pistola di 007 in Mai dire Mai. I volti di potenza di Conan il distruttore e Rambo III. Jonh Wayne nella battaglia di Iwo Jima. Il Pugno di dollari in mano a Clint Eastwood nel vento del West. L’abbraccio che sembra un miraggio nella nuvola di sabbia del Tè nel deserto.
 
Uno sguardo alle sue locandine e in un soffio tornano in mente centinaia di film che hanno segnato la storia del cinema. Per idearne il bozzetto, sintesi dell’idea filmica, gli bastava una settimana. Un mese per metterla su carta e produrre capolavori che hanno costruito l’immaginario collettivo, la memoria in celluloide di ciascuno di noi. Quando non esisteva Photoshop e i cartelloni cinematografici erano opere d’arte dipinte a mano da creativi talentuosi, la sua era “l’arte di dipingere il cinema”. 
 
Lo hanno scelto registi come Sergio Leone, Francis Ford Coppola, Bernardo Bertolucci, Franco Zeffirelli, Michael Cimino, Milos Forman. Come molti altri, gli hanno affidato il compito di imprimere nella mente degli spettatori il senso e il fascino del loro lavoro usando una sola immagine. E lui l’ha resa cult. 
 
A 19 anni era il più giovane cine-pittore in Italia e oggi detiene il record di longevità artistica: nessuno ha lavorato quanto lui tra i pittori del cinema. Nel suo archivio ci sono più di mille illustrazioni per l’industria cinematografica mondiale.
 
Oggi Renato Casaro ha 81 anni ma trasmette la stessa passione di quando a 17 anni ha cominciato la sua carriera artistica:  disegnava locandine in cambio di biglietti del cinema. Non è un caso che a L’Italo-Americano dica con l’entusiasmo di un ragazzo di essere pronto per ripartire aspettando “una nuova sfida ad alto livello” da un Fellini dei giorni nostri. 
 
Come nasce un cartellone cinematografico? Come trova l’idea per trasformare due ore di film nell’immagine iconica che sintetizza un intero film?
Questo è un po’ un segreto. Diventa più facile da capire con l’esperienza, e con il tempo si impara. In questa professione la cosa importante è rendere in pochi centimetri di immagine tutto il film. Bisogna trovare la sintesi della storia, il fulcro, per poterlo non solo raccontare in un’immagine ma per riuscire anche a incuriosire il pubblico.
 
In una società come la nostra che vive di immagine ma in maniera vorticosa, per cui ne siamo continuamente bombardati ma ci scorrono davanti così in fretta che ce le dimentichiamo subito dopo, come si fa a trovare immagini che si fermano nella memoria, che restano nel tempo?
Questo oggi è effettivamente difficile. Prima si poteva farlo meglio. Con le tecnologie moderne, con il digitale, con la televisione, i trailer, è difficile fermare questa corsa al tempo. Tutto è troppo rapido e non c’è il tempo di fermarsi e vedere.
 
Se si va su Wikipedia e si digita il suo nome, si trova come definizione che lei è uno dei “maestri più importanti, influenti e innovativi della cartellonistica cinematografica italiana”. In che cosa consiste, secondo lei, la capacità innovativa?
Un tempo consisteva nell’adeguarsi ai tempi. Oggi questo si è un po’ superato con la tecnologia. Allora era importante comunicare attraverso immagini ferme. Prima la strada era la nostra galleria. Il nostro museo era sulla strada. 

Lo chiamavano Trinità, Il Tè nel deserto, Conan il distruttore e Polvere di stelle: suoi oltre mille cartelloni per l’industria mondiale del cinema

Nei suoi lavori ha usato tecniche tradizionali: la tempera e l’aerografia. Un modo “antico” di fare pittura, oggi soppiantato dalla computergrafica che però ha tagliato fuori delle capacità artistiche che erano qualità coltivate nel tempo.
Esattamente, esattamente. Oggi la creatività si è appiattita. Ma se manca la creatività non si può comunicare e si deve comunicare con la creatività e l’essenzialità delle cose ma soprattutto con la bellezza, che oggi è sopperita dalla fotografia.
 
I giovani di oggi si stanno specializzando nel digitale e stanno abbandonando l’arte che l’ha resa grande. A loro che cosa direbbe? Di tornare indietro?
No, tornare indietro no, però direi che si potrebbero combinare le due cose. Non usufruirei solo della tecnologia ma inviterei a sfruttare meglio la creatività per produrre cose importanti. Anche in questo l’America è un passo avanti rispetto all’Italia e all’Europa in genere.
 
Con la computergrafica si perde anche la manualità, la tattilità dell’opera, il contatto fisico ed emotivo con la carta, con il disegno.
Sì, e poi è evidente che bisogna conoscere il prodotto cinema, devi essere innanzitutto un grande amante del cinema. Se lavori in un’agenzia dove oggi produci il lancio di un sapone da lavatrice e domani crei immagini per un film non puoi viverne lo spirito. Non si possono fare le due cose: per lavorare bene per il cinema devi fare solo cinema. 
 
Lei rappresenta la storia contemporanea dell’illustrazione made in Italy, soprattutto quella legata al cinema. A New York l’hanno messa tra i “big 5”, i migliori del settore. Lo sente come una conquista e un riconoscimento alla sua carriera lunghissima o c’è la possibilità di evolversi ancora, cioè lo sente non un punto di arrivo ma una tappa del percorso?
Io ho sempre cercato di fare il massimo finchè ho potuto, dando sempre il meglio. Oggi credo di avere smesso perché, data anche l’età, ho pensato che è giusto fermarsi all’apice della carriera. Oggi comunque potrei fare ancora qualcosa. Se mi proponessero una sfida la accetterei. Anche con la tecnologia moderna del graphic computer. Aspetto l’occasione.
 
Da chi se la aspetta? 
Mah… aspetto una commissione importante.
 
Più un regista americano o italiano? Le è rimasto un sogno nel cassetto?
No, ma se oggi ci fosse Fellini prenderei Fellini come simbolo di questa sfida, come protagonista della richiesta, come incentivo a fare. Fellini, che mi manca nella carriera, sarebbe l’esempio perfetto.
 
La personale che ha portato a Giovinazzo, in Puglia, è una delle più complete e importanti con una cartellonistica che va dal 1955 al 1999. Come mai ha scelto di farla? Cosa ha voluto comunicare attraverso questa mostra?
Mi ha commosso la partecipazione. Mi ha entusiasmato molto e mi ha sorpreso soprattutto per i tanti giovani che l’hanno visitata. L’ho portata qui perché mi è stata data questa opportunità. All’inizio ero un po’ perplesso ma bisogna cominciare da iniziative come queste per incentivare i giovani, per coltivare la loro creatività.
 
In fondo Giovinazzo, un legame con il cinema di Hollywood, ce l’ha in casa visto che John Turturro ha origini qui.
Sì e a suo tempo ho anche realizzato un bozzetto per “Il siciliano” di Michael Cimino, con Turturro e Christopher Lambert. C’è anche qui in mostra. Per caso.
 
Nel sua carriera lunghissima ha visto cambiare molto il cinema e ha conosciuto sia quello di Hollywood sia quello della grande Cinecittà. Come giudica il cinema oggi? 
Direi che oggi in Italia, a parte certe eccezioni, e sono veramente eccezioni, il cinema si è un po’ appiattito. Considero invece l’estero, l’America, fonte di film buoni, interessanti. Hollywood resta una meta, grazie a buoni sceneggiatori che qui in Italia mancano.
 
Lei è stato quando, ancora non si usava questa definizione, un cervello in fuga. Ritiene importante per un giovane creativo, un talento italiano, fare un percorso di arricchimento personale e di formazione all’estero?
Sicuramente. All’estero s’impara e si fanno esperienze che non si possono fare in una dimensione provinciale, ed è assolutamente impensabile in un mondo globale come quello di oggi.
 
Lei è di Treviso e il Veneto è storicamente una terra di emigrazione. Si è mai sentito un emigrante?
Assolutamente no perché sono sempre stato richiesto. Non sono mai emigrato ma ho portato all’estero la mia professionalità e la mia esperienza e sono sempre stato bene perché ho sempre voluto provare nuove esperienze. 
 
L’Italo-Americano parla a una comunità composta da emigranti e dai loro discendenti che hanno un legame affettuoso con il territorio d’origine.
Dino De Laurentiis, grande italiano che si trasferì a Los Angeles per produrre film, mi chiamava proprio perché voleva tenere insieme la professionalità italiana, valorizzare l’eccellenza italiana fatta di operatori del cinema e di sceneggiatori italiani, per tenere vicino a sé l’italianità.
 
Proprio a Los Angeles, e con La Bibbia di John Huston (1966), ha raggiunto il suo primo grande traguardo con il suo manifesto affisso sul Sunset Boulevard di Hollywood.  In quella occasione si è sentito arrivato?
Arrivato no ma importante sì. La Bibbia prodotta da De Laurentiis fu il primo, sì. Essere sul Sunset con 20 metri quadri di manifesto portati dall’Italia direi che è davvero molto emozionante. Uno si sente importante più che arrivato. 
 
Ha vissuto a lungo a Los Angeles. Come la disegnerebbe oggi, con quale colore la dipingerebbe?
Disegnerei proprio il Sunset Boulevard con lo scorcio di tutte le palme e lo Chateau Marmont, il famoso hotel che sta sul Sunset e soprattutto quei cartelloni giganti che identificano Los Angeles. Sceglierei la notte, con punti luce sulle spettacolarità che Los Angeles offre.

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