Piazza Leopardi a Recanati (Ph Claudio.stanco - Commons wikimedia - Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license)

Giacomo Leopardi provò delicati e teneri sentimenti nei confronti di tre donne che incontrò lungo il percorso della sua sofferta esistenza: Silvia, Paolina, Nerina.
A Silvia, probabilmente da identificare con una certa Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, dedicò l’omonima lirica composta tra il 19 e il 20 aprile del 1828. Nei suoi versi il poeta più che alludere ad una passione per la fanciulla, si riferisce alla condivisione della medesima condizione esistenziale: la giovinezza, fase della vita connotata da rosee illusioni sul futuro e non ancora tormentata da crudeli sofferenze.

“Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovinezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano”.

Paolina Ranieri, sorella del suo amatissimo amico napoletano, Antonio Ranieri. Tra le braccia di questa fanciulla, a Capodimonte, il Leopardi morì il 14 giugno 1837. Ma quale sentimento legò il genio di Recanati a lei? Sicuramente egli rimase affascinato dalla grazia e dalla sensibilità della giovane, ma per lei riuscì a nutrire soltanto un profondissimo affetto e una grandissima riconoscenza dal momento che Paolina stava sacrificando i suoi anni migliori per rendere meno tormentata l’esistenza del poeta.

Nerina, nella realtà Maria Belardinelli, una giovane tessitrice di Recanati, morta nel 1827, che il Leopardi appellò con tale pseudonimo in ricordo della Nerina Galatea di Virgilio, era una bionda fanciulla che il poeta osservava con ammirazione dalla sua camera mentre era intenta alle sue faccende: probabilmente, per questo, alcuni critici l’hanno identificata con Teresa Fattorini, ma si tratta in realtà di due personaggi distinti. Tuttavia la vera passione che logorò le sue giornate attraverso sofferenze, tormenti, delusioni, umiliazioni fu quella provata nei confronti di Fanny Targioni Tozzetti.

Un triste destino quello del poeta che, deluso terribilmente dalla realtà, optò per il sogno, come estremo territorio dell’unica felicità possibile. Leopardi, in questo caso, fu autentica vittima degli strali di Eros che pare si divertisse, sotto le sembianze di questa donna, a tormentarlo. Sembra che il dio dell’Amore gli avesse inferto una profonda ferita con  quella medesima freccia che nel mito aveva colpito Apollo. Stanco delle continue derisioni da parte del nume, un giorno Eros si vendicò di lui  scagliandogli contro una freccia d’oro che aveva il potere di farlo soffrire  terribilmente per la ninfa Dafne la quale, invece, era stata colpita da una freccia di piombo che aveva la prerogativa di renderle assolutamente odioso l’innamorato e di indurla a fuggire da lui.

Fanny, di origini inglesi, era nata  a Firenze nel 1801 da una nobile famiglia. A venti anni aveva sposato il medico e naturalista Antonio Targioni Tozzetti, discendente da una prestigiosa  famiglia fiorentina di scienziati. Da lui aveva avuto tre figlie della cui educazione si occupò personalmente e  che seguì con amorevoli cure materne, come testimonia l’epigrafe sulla sua  lapide (la morte avvenne nel 1889), dettata personalmente dalle figlie: “donna colta e gentile, madre  affettuosa e provvida”.

Questo matrimonio aveva permesso alla nobildonna  di entrare in contatto con ambienti culturali, politici, istituzionali influenti e di aprire un salotto letterario ad intellettuali fiorentini e a colti stranieri di  passaggio in città. Tra gli ospiti più illustri si annoverano Massimo D’Azeglio, Gino Capponi, Pietro Giordani e naturalmente… Giacomo Leopardi.

Creatura di rara bellezza e grande charme, dai modi gentilissimi, ma anche molto chiacchierata, conobbe il poeta tra il 1830 e il 1833 grazie al patriota napoletano e comune amico, Antonio Ranieri. Fanny si era infatuata irrimediabilmente di quest’ultimo e aveva accolto Giacomo più volte nella sua principesca dimora al solo fine di ottenerne confidenze sul giovane napoletano. Il nostro poeta, nella sua disarmante ingenuità, credette di essere benvoluto dalla nobile che, in realtà, gli strappò numerosi autografi di personaggi illustri per la sua collezione privata (ad esempio quello dell’Alfieri) e una preziosa copia rilegata in oro dei “Canti” del Leopardi contenenti una sezione nota come “Ciclo di Aspasia”.

Il leit motiv dell’opera è rappresentato dalla passione che travolge completamente l’animo e la mente dell’uomo e lo induce ad azioni straordinarie. Ma, accanto a queste, inevitabilmente subentreranno le  disillusioni, terribilmente distruttive, che solo la morte potrà condurre al silenzio. Nella lirica intitolata “A se stesso”, pubblicata nel 1835, e parte del “Ciclo di Aspasia”, il poeta arriva ad affermare:
“Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo”.
Alcuni mesi dopo la morte di Giacomo, nel 1837, Fanny seppe, con grave disappunto, che lei stessa era stata ispiratrice della figura di Aspasia e così scrisse a Ranieri “…se io non vi conoscessi così propenso al farmi arrabbiare, direi che siete stato cattivo nel tentare di darmi un dispiacere colla risposta sull’Aspasia. Voi più d’ogni altro sapete se mai diedi la minima lusinga a quel povero uomo del Leo, e se il mio carattere è tale da prendersi gioco di un infelice e di un bravo uomo come lui”.

Ma chi era Aspasia e perché aveva causato tanto dispiacere a Fanny il paragone con lei? Aspasia, la donna più celebre del V secolo a.C., non corrispondeva assolutamente al modello tradizionale di femminilità classica: devota, silenziosa, premurosa verso il marito e la prole. Anche la sua origine era, per così dire, anomala. Era nata a Mileto, in Asia Minore,  faceva parte di una società aperta agli influssi stranieri e ricca di stimoli culturali e, quindi, probabilmente più elastica nella definizione del ruolo femminile. Ricca e raffinata, divenne la compagna del leader politico ateniese Pericle (494 a.C./429 a.C.) che per lei abbandonò la moglie e due figli legittimi. Non era particolarmente bella, ma elegante e affascinante tanto che il filosofo Socrate (470 a.C./399 a.C.) la considerò uno dei suoi maestri di vita e ne lodò la saggezza e la lungimiranza politica.

In effetti Fanny rappresentava un unicum rispetto allo stereotipo femminile  della società del suo tempo e, probabilmente, proprio per questo, infiammò fino a tal punto l’animo del poeta: lei componeva, infatti, epistole di altissimo livello e di squisita delicatezza; era, inoltre, ottima pittrice, conosceva alla perfezione le principali lingue straniere, in primis Francese e Inglese, ed era esperta di bon ton.
Non deve infine stupire che frequentasse con assiduità Paolina Bonaparte (sorella  di Napoleone Bonaparte) ai cui ricevimenti era sempre invitata e che lei stessa accoglieva sovente come ospite nella sua sontuosa dimora. Ma, purtroppo, la sua dirittura morale non fu mai coerente con la sua bellezza e raffinatezza. Ella considerò  Giacomo un tipo pesantissimo da tollerare, noioso, sempre sofferente, ma soprattutto come scrisse lei stessa “un  grande inciampo nel cammino della vita”.
Fece bene il Leopardi a perdersi dietro a Fanny? Le credette per lungo tempo, ma come ricorda il poeta latino C.V. Catullo (84 a.C./54 a.C.) “ciò che dice una donna all’amante appassionato, scrivilo nel vento e nell’acqua rapida”.

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