La catena umana e solidale dei ‘pozzi cantanti’ che dall’Etiopia rivendica il diritto universale all’acqua
“The Well, Voci dall’Etiopia”. È il documentario di Riccardo Russo e Paolo Barberi, dal soggetto di Mario Michelini, ambientato nel Corno d’Africa e basato sul tema dell’acqua.
Nelle aride distese dell’Oromia, nel sud dell’Etiopia, si estende il territorio dei Borana, una popolazione di pastori seminomadi che gestiscono le scarse riserve d’acqua attraverso una organizzazione di tipo comunitario e ne garantiscono l’accesso libero a tutti. Un sistema che stupisce, rendendoci consapevoli della pochezza della nostra società, del tutto individualista.
Il documentario segue le vicende che ruotano intorno alle attività di un antico pozzo in cui la popolazione dei Borana, durante la stagione secca, si ferma per dedicarsi all’attività volontaria e necessaria dell’estrazione dell’acqua, permettendo la sopravvivenza loro e del loro bestiame. I pozzi in cui lavorano, sono conosciuti come “pozzi cantanti” e sono opere edili centenarie, scavate a mano nella roccia.
Noi de L’ItaloAmericano abbiamo avuto il piacere di conoscere uno dei realizzatori di “The Well, Voci dall’Etiopia”, Riccardo Russo, il quale ci ha concesso un’interessante intervista, dimostrandoci la sua passione e grande competenza.
Dalla sua biografia si legge che è Dottore di Ricerca in Applicazioni Territoriali della Geografia. Come e quando è nato l’amore per il cinema?
La voglia di lavorare con l’audiovisivo c’era sempre stata. Poi sono riuscito a utilizzare la mia prima piccola telecamera per raccogliere documentazioni e interviste nell’ambito delle ricerche che avevo fatto in giro per il mondo. Il primo video al quale mi sono dedicato era legato alla mia ricerca per la tesi di dottorato sulle township di Johannesburg (“L’Altra Faccia di Egoli” ndr).
In quell’occasione mi sono accorto che grazie all’ausilio della telecamera, potevo interagire meglio con le persone e i luoghi che incontravo per la mia strada. Ho iniziato così, aiutando l’attivismo di alcune comunità di Johannesburg che stavano lottando contro la privatizzazione dell’elettricità. Alla fine di tutto, il documentario ha avuto più successo della tesi e il Roma Doc Fest nel 2003 l’ha anche premiato.
I suoi documentari sono tutti molto importanti a livello socio-culturale e ci mostrano realtà per lo più a noi sconosciute. Com’è nata l’idea di “The Well”?
Abbiamo scritto questo documentario in tre, due geografi e un antropologo. Mario Michelini (autore del soggetto, ndr) lavorava già nel sud dell’Etiopia, collaborando con una Ong impegnata sul problema dell’acqua. Mario è stato quindi il primo ad avere accesso a questo luogo incantevole, e ne era rimasto talmente affascinato da convincerci a raggiungerlo. Paolo Barberi ed io, colpiti dalla scenografia dell’ambiente e dal modo di vivere di questa comunità, abbiamo deciso di farne un documentario. Abbiamo pensato che, visto e considerato che, il sistema dei “pozzi cantanti” rappresenta un esempio per il resto del mondo, fosse nostro dovere, registrarlo e farlo conoscere nell’Occidente.
Cosa ci insegna?
Noi occidentali consideriamo queste popolazioni sottosviluppate, ma, vivendoci a stretto contatto e osservando il loro sistema, ci siamo accorti che siamo noi a dover imparare qualcosa. Noi che rischiamo di privatizzare un bene comune necessario come l’acqua, abbiamo bisogno di sapere che esistono popolazioni pastorali che, invece, riescono a garantirlo a tutti, persino al loro nemico. Proprio nel 2008, quando siamo partiti per il documentario, c’era il forum mondiale dell’acqua a Istanbul e nemmeno le Nazioni Unite erano riuscite a mettersi d’accordo sul fatto imprescindibile che l’acqua è un diritto umano universale.
Ma chi sono i Borana?
I Borana sono una popolazione seminomade di circa 200 mila persone. Vivono tra il sud dell’Etiopia e il nord del Kenia; si spostano di pascolo in pascolo durante la stagione umida. Quando arriva la stagione secca, e su tutto il loro territorio non c’è più acqua in superficie, i Borana hanno questo sistema incredibile che dura da secoli: si riuniscono attorno a questi antichissimi pozzi e si dedicano volontariamente all’attività di estrazione dell’acqua.
Ogni giorno i pastori più giovani si dispongono a formare lunghe catene umane per raggiungere le profondità dei pozzi e portare l’acqua in superficie. Il loro lavoro è scandito da un canto, (per questo li chiamano “pozzi cantanti, ndr) che emerge e si spande nell’aria fino a raggiungere le grandi mandrie che si avvicinano lentamente dopo giorni di cammino in cerca di pascolo. Ci sono precisi turni di accesso degli animali al pozzo, per specie di animale, per appartenenza di essi al clan e vi possono accedere, ogni tre giorni. In questo periodo il pozzo si eleva a piccolo sistema sociale, basato sulla collettività e sul diritto democratico e universale dell’acqua. Il sistema di utilizzo del pozzo dura da secoli. I Borana sono quindi, prima di tutto, una popolazione civile che deve essere esempio per tutti.
Quanto è durata la lavorazione del documentario?
La lavorazione è durata tre anni. Con il ricavato di questo film (siamo riusciti a fare alcune vendite) cercheremo di finanziare la riabilitazione di un antico pozzo che è franato; ma sarà una riabilitazione fatta con il metodo tradizionale dei Borana: centinaia di persone che lavorano insieme, sgozzando animali per mangiare. Un lavoro edile straordinario, che abbiamo intenzione di filmare.
Dando un’occhiata a tutti i Festival ai quali ha partecipato con Paolo Barberi e Mario Michelini, per lo più all’estero (74 festival internazionali e 15 premi vinti) viene da chiedersi perché in Italia il documentario ha così tanti problemi di distribuzione?
In Italia ci sono tantissime produzioni di documentari molto interessanti e impegnati, ma la maggior parte di questi vengono salvati dai festival stranieri che li accolgono e distribuiscono. C’è poca fruizione in Italia di documentari e quindi c’è tanta competizione. Molti documentari hanno successo in Italia solo dopo che l’hanno avuto all’estero. Ho notato una grande sensibilità in Francia, in Olanda, Canada, Stati Uniti, nel mondo anglosassone, e recentemente in quello arabo, grazie al contributo di Al Jazeera. In Italia invece, il documentario è legato al mondo dell’associazionismo e dell’indipendente. Questo non è solo negativo, si creano rapporti molto interessanti, ma sono eventi piccoli e poco sostenuti.
Dopo “The Well” quali sono i progetti per il futuro?
Noi siamo un’associazione indipendente, no profit, e operiamo a livello sociale. In questo momento stiamo chiudendo un altro documentario che abbiamo girato nel Sahel, in Nigeria, intorno al tema della siccità. Abbiamo voglia di lavorare su temi fondamentali che trattano diritti universali dell’uomo e che mostrano il mondo dimenticato sotto un altro punto di vista, meno retorico. C’è, infatti, questa tendenza a pensare di poter risolvere i problemi altrui quando invece non siamo in grado di risolvere i nostri. E il cinema può aiutare e sensibilizzare tutti sui problemi lontani ma in realtà vicini a noi. Per questo il documentario di qualità deve essere un prodotto sostenuto economicamente perché ispira e spinge l’uomo alla riflessione.