Pietro era un libro aperto. Capitava, all’ora di pranzo, di incontrarlo nella solita trattoria situata in una traversa di via Cola di Rienzo, quartiere Prati, rione borghese, soprattutto vicino ai Tribunali ed alla Procura.
 
Pietro Mennea, dopo essersi ritirato dall’attività agonistica, si era laureato in giurisprudenza. E poi in economia e commercio. Sui libri e sugli esami universitari aveva gettato la stessa rabbia riversata in pista, sfrecciando da velocista quasi mai battuto.
 
Da ragazzino correva contro le auto, da mezzanotte in poi, a Barletta, la sua città. E spesso riusciva a seminarle, uscendo alla distanza, arrivando per primo sul traguardo immaginario. I suoi amici lo sapevano, c’era persino chi amava scommettere. E Pietro, ripensandoci, visto che già da ragazzo mostrava stimmate da predestinato, chissà quanti soldi avrà fatto vincere ai suoi concittadini. Gli stessi che, undici anni fa, quando si presentò candidato per diventare sindaco di Barletta, gli diedero le spalle, rifilandogli una delle delusioni più cocenti della sua vita. Aveva idee, in molti campi, Pietro Mennea.
 
Forniva contributi, mai banali. Aveva un carattere spigoloso, metodico. In pista chi lo ha conosciuto lo ricorda come una sorta di asceta, sei ore ad allenarsi, perfezionista per antonomasia. Mai un lamento, una distrazione. Concentrato sull’obiettivo. Aveva idee eppure, dopo aver smesso di correre, è stato osteggiato nella vita di tutti i giorni. Al pari di altri come lui: il nostro Paese, spesso e volentieri, stenta ad avallare i sogni di chi gli ha dato lustro.
 
Portava sulle proprie spalle, Pietro, l’urlo disperato dei ragazzi del Sud. Gli stessi ai quali – dopo aver vinto l’oro olimpico ai Giochi di Mosca del 1980 – dedicò quel trionfo. Occhi mai compiutamente felici, occhi alla ricerca della felicità. Carattere scontroso, scorbutico, Pietro. Maledettamente orgoglioso. In pochissimi sapevano della malattia – la solita, quella che non perdona – che lo aveva colpito otto mesi fa, prima dell’ultima estate. L’ha combattuta in silenzio, fino alle ultime ore, quando, non potendo più parlare, si è improvvisamente accorto che la sua favola terrena stava evaporando.
 
Pietro Mennea è morto a sessant’anni e tutto lo sport italiano, all’improvviso, si è sentito più solo, triste e vulnerabile. Perché Pietro sembrava uno di quegli amici con i quali eri cresciuto. La voce del telecronista della Tv di Stato Paolo Rosi l’aveva accompagnato per anni nelle sue scorribande. Dall’oro di Mosca al primato del mondo sui 200 metri, centrato in altura, a Città del Messico, imbattuto per quasi vent’anni. A corredo delle imprese sportive la sua voglia di non arrendersi mai, di urlare la sua potenza, di sventolare i suoi sogni.
 
Campione in pista e poi nella vita: in pochi ci riescono. Abituati ad essere eroi applauditi, si ritrovano spesso immalinconiti e perdenti una volta ritiratisi. Ma Pietro Mennea era di un altro pianeta, unico e splendente. Il suo urlo, lo stesso di tanti ragazzi del Sud che cercano il riscatto, non morirà mai.
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