Per due anni, dal marzo del 2006 all’estate del 2008, Paolo Onofri aveva vissuto con un rimorso grande come un macigno. Uno di quelli che opprimono, che tolgono il respiro. Che trasformano la vita in un’odissea.
Tommy, il piccolo di diciotto mesi, figlio di Paolo Onofri, venne rapito e ucciso da due balordi nelle campagne vicino Parma. Il suo corpicino venne scoperto di notte sul greto di un torrente quasi un mese dopo. Un storia agghiacciante, che restò sulle prime pagine dei giornali e nelle copertine dei Tg per trenta giorni abbondanti, seguendo le fasi delle ricerche e poi quelle, drammatiche del rinvenimento del corpo.
Paolo Onofri era un omone di quasi due metri, impiegato delle Poste. La polizia – dopo il rapimento – gli chiese di fornire alcuni nomi, alcuni indizi, finalizzati a scoprire i rapitori di quel bambino biondo, vulnerabile perché ancora claudicante sulle gambe.
Paolo Onofri fece sette nomi di potenziali rapitori, gente che poteva – a suo giudizio e per svariati motivi – aver pensato di ordire un rapimento ai danni di un infante. Paolo Onofri dimenticò due nomi, coloro che, una notte, mentre la famiglia era a cena, fecero irruzione in casa, legando i genitori del piccolo a una sedia, strappando Tommy dal seggiolone. Due balordi, un muratore e un suo amico. Gente che Paolo Onofri, mesi prima, aveva ingaggiato per ripulire alcune stanze.
Un giorno, per fare il gradasso, fidandosi delle persone che aveva accolto in casa, Paolo Onofri disse loro di una eredità che aveva intascato e indicò incautamente anche il posto (una scatola) dove teneva quei soldi.
Ecco il rimorso con il quale visse, per oltre due anni, il papà di Tommy: aver praticamente consegnato, a seguito di una leggerezza, il proprio figlio di diciotto mesi a due delinquenti, ingolositi dal possibile riscatto da chiedere. Tommy venne ucciso la sera stessa del rapimento: forse pianse troppo, forse i due balordi persero la calma. Venne sepolto in fretta, accanto a un ruscello.
La Polizia scoprì nel computer che usava Paolo Onofri foto pedopornografiche e così il padre di Tommy finì per diventare uno dei possibili indiziati.
Finì sulla graticola e poi si giustificò dicendo che ‘nella vita un volta si può sbagliare’. Era stato ovviamente un errore (e un reato, con condanna poi patteggiata) tenere quelle foto nel proprio computer.
Non c’entrava ovviamente nulla con la morte del figlio. La vita di Paolo Onofri, però, era ormai segnata. Dal dolore, dalla vergogna, per via di quelle foto. Dal fatto di aver accompagnato al camposanto suo figlio innocente, la più grande crudeltà per un genitore.
Nell’estate del 2008 Paolo Onofri venne colto da infarto, senza risvegliarsi più. Era un uomo piegato dai rovesci della vita, che aveva vissuto i due anni dalla tragedia come un robot. Il cuore si arrese, ma lui restò in vita artificialmente, senza più riaprire gli occhi, in coma vegetativo. Si è spento pochi giorni fa, senza aver compiuto neanche 55 anni. Stroncato dai rimorsi, dal dolore, dallo strazio. Morto in nome del figlio.