Che il primo impatto con una megalopoli come Los Angeles possa rivelarsi indigesto è un fatto pacifico. Capita. Il tempo aiuta a digerire i bocconi troppo amari. Pochissime “prime volte” con la città californiana, però, possono dirsi  altrettanto dure come quelle di Alessandra Pasquino, 54 anni, regista.

Era la metà degli anni ’80 e Pasquino in quel periodo abitava a San Francisco. Aveva appena iniziato a lavorare come assistente per il regista Wayne Wang, e la produzione era attiva in California e Cina. «Al rientro dalla Cina – racconta Pasquino – avevo deciso di andare a trovare un’amica a LA a cui, tra le altre cose, avrei dovuto portare un gatto».

 Alessandra Pasquino

 Alessandra Pasquino

Verso sera le due amiche si sentirono ancora una volta al telefono. Poi l’incidente: «ero a un semaforo, era rosso. Una macchina entrò a tutta velocità nel posteriore della mia, che iniziò prima a sbandare e poi a ribaltarsi su di sé». Nell’impatto il serbatoio venne completamente distrutto, e macchina e asfalto erano impregnate di benzina. «Ero a testa in giù, piena di benzina e non riuscivo a muovermi. Ma riuscivo comunque a vedere il gatto».

A un certo punto, Pasquino vide avvicinarsi due uomini completamente nudi con un coltello in mano. «Mi chiesero se fossi sola in macchina, e in quel momento credetti mi volessero violentare». La fine della storia, fortunatamente, fu differente: «con il coltello tagliarono la cintura di sicurezza, salirono su una seconda vettura e fuggirono. Pensai di aver battuto la testa, ma un testimone oculare confermò la versione della storia per quanto assurda potesse sembrare».

Soltanto il giorno dopo si conobbe il resto: i due uomini si costituirono e ammisero di aver guidato sotto l’effetto di alcool e droghe. Dopo l’incidente le chiesero se fosse sola perché temevano di aver ucciso qualcun altro nell’impatto, dopodiché andarono alla polizia perché non ricordarono la risposta che aveva dato loro la ragazza.

Prima di trasferirsi definitivamente a Los Angeles, Pasquino continuò a lavorare a San Francisco per qualche tempo, e fece esperienza anche a fianco dell’attore Klaus Kinski. Successivamente, l’attività dietro alla macchina da presa l’ha portata a dedicarsi a diversi campi, da quello pubblicitario (nella casa di produzione Pavlov nata in seno alla Sony Picture Imageworks, ha lavorato per Kelloggs, Mc Donalds, Nabisco, Chrysler e Range Rover), a quello documentaristico. Adesso freelance, tra i suoi clienti ha avuto anche Oliver Stone, Leonardo Di Caprio, Kareem Abdul Jabbar, Cbs, Abc e Disney.

    Alessandra, prima di prendere la strada degli States – a  fine anni ’70 – si era trasferita inizialmente nel Regno Unito. «Lasciai la scuola superiore e andai da un’amica a Londra – racconta –, dove iniziai a lavorare. Al tempo, ovviamente, non c’erano skype e cellulari. Non fu sicuramente una scelta facile». Dopo essersi informata sulla documentazione necessaria per studiare nelle università inglesi,  si costruì un nuovo background formativo per poter iniziare la nuova avventura. Si laureò alla Facoltà di Fine Arts dell’Università del Middlesex di Londra, concentrandosi sull’arte visiva e sulla recitazione. Nello stesso periodo frequentò anche una scuola di recitazione basata sul metodo dell’attrice tedesca Uta Hagen, ma la sua vera vocazione era quella di diventare regista.

Attualmente, sta lavorando a un documentario sui “lavavetri funambolici” di New York, ma nel cassetto ha ancora il sogno di un docu-film su Tazio Nuvolari, pilota italiano degli anni ’30 e ’40 di cui è anche cugina alla lontana. «Purtroppo, per questi soggetti – aggiunge – è difficile trovare i fondi».

E nonostante Los Angeles sia una città a 90 metri sul livello del mare, la sua vera passione è rimasta quella per la montagna. «Negli States esiste una comunità alpinistica molto vasta – racconta –. Appena posso anch’io cerco di passare qualche giorno in montagna per fare trekking, sciare, o semplicemente staccare dal ritmo e dalla vita di Los Angeles».

Nel 2006, con una spedizione non commerciale, Pasquino ha tentato la vetta del Chomolungma (versante Tibetano dell’Everest, o North Side). A causa del maltempo, la spedizione – composta da 5 climbers, 2 sherpa e più di 20 yaks – riuscì ad arrivare fino a quota 6000 metri. Ovviamente senza ossigeno (si usa al di sopra degli 8000 metri) e, almeno in questo caso, senza macchina da presa.

 

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