Massimo Mucchetti laurea in filosofia all’Università Statale di Milano, giornalista professionista dal 1981, ha iniziato l’attività giornalistica professionale sul quotidiano Bresciaoggi, una cooperativa della quale è stato uno degli amministratori. Poi a “Mondo economico”, settimanale de il Sole 24 Ore. Dal 1986 al 2004 ha lavorato all’Espresso dov’è stato vicedirettore. Attualmente è vicedirettore ad personam del Corriere della Sera e giornalista specializzato in alta finanza.
In televisione ho sentito che diceva che le banche dovrebbero essere nazionalizzate. Potrebbe riassumerne i motivi?
Intervenendo al [programma Tv] L’Infedele sulla [rete Tv] La 7, ho sostenuto che, se gli Stati mettono tanti soldi nelle banche sostituendosi ai mercati finanziari evaporati, devono avere gli stessi diritti di governance degli altri fornitori di capitale di rischio. Quindi devono poterle nazionalizzare. E poi, magari, più avanti restituirle al mercato. Diversamente, se cioè gli Stati mettono i soldi, e i vecchi soci privati, così salvati dal fallimento, continuano a comandare, i governi regalerebbero i denari dei contribuenti. Il che è avvenuto principalmente negli Stati Uniti e nel Regno Unito. In Italia, lo Stato non ha dato capitale di rischio, ma ha sottoscritto speciali obbligazioni – i Tremonti bond – che rendono parecchio e che, se non rimborsate entro il 2013, renderebbero ancora di più ovvero dovrebbero essere convertite in azioni con i conseguenti diritti di governance.
Anche le banche italiane hanno speculato irresponsabilmente con i soldi dei risparmiatori. Perché é stato permesso?
Nelle banche italiane, le posizioni speculative, assunte in proprio, ma finanziate con i depositi, sono assai inferiori a quelle delle banche americane, inglesi e di alcune tedesche e francesi. Questo rischio è stato comunque preso con l’obiettivo di elevare il rendimento del capitale azionario. Ed è stato consentito perché, negli ultimi vent’anni, la filosofia anglosassone ha contagiato l’Europa, le sue banche centrali, le sue istituzioni di vigilanza. Un tempo negli Usa valeva il Glass Steagall Act [la legge bancaria del 1933] e in Italia la riforma bancaria del 1936. Erano regole generali che impedivano, o quantomeno rendevano ardua, questa commistione. Negli ultimi vent’anni sono state superate in nome dello shareholder value.
Lei ha anche scritto che in America la deregulation ha danneggiato il benessere, in Italia é diverso?
Negli Usa, la deregulation ha invertito la tendenza alla distribuzione dei redditi. Durante la cosiddetta Golden Age, dopo la Seconda Guerra Mondiale fino agli anni ’70, il valore aggiunto prodotto dall’economia andava in misura crescente alle classi medie in un contesto di crescita generalizzata a basso debito. Dagli anni ’80 in poi, la crescita è stata inferiore, il debito crescente, la concentrazione del reddito e della ricchezza tutta in capo alla vetta della piramide sociale. Anche in Italia si è avuto lo stesso fenomeno, con l’aggravante di un debito pubblico più elevato che ha impedito al governo di sostenere con denaro pubblico l’economia come invece ha potuto fare la Casa Bianca.
In America si dice che Silvio Berlusconi sia stato costretto dai banchieri a dimettersi da Primo Ministro, altrimenti Mediaset che é quotata in borsa ne avrebbe pagato le conseguenze. Le risulta?
Credo che questi banchieri che tu citi siano molto male informati. Berlusconi è stato costretto a dimettersi perché aveva accumulato una pessima reputazione sui mercati e tra gli altri leader occidentali a causa di tanti fatti noti a tutti. Non a caso il suo principale sponsors era [il presidente russo] Vladimir Putin. Mediaset ha goduto di una regolamentazione privilegiata, senza eguali in tutto l’Occidente, grazie all’influenza del suo azionista di riferimento (ha il 38%) sulla politica. Al momento non è stato fatto nulla contro Mediaset, se non annullare il ridicolo beauty contest [sistema per assegnare le frequenze a favore di Mediaset e Rai]. Mediaset va male in Borsa perché da 15 anni non produce un’idea nuova, ha un gruppo dirigente vecchio e familistico, una struttura di costi fissi pesante ed è anche finito il tempo in cui una parte della raccolta pubblicitaria era assicurata dall’ansia di compiacere il patron di palazzo Chigi.
Pensa che Mario Monti abbia scelto da sé la sua squadra di governo o che la politica abbia interferito?
Monti ha scelto in prevalente libertà: più che dai partiti, il Premier mi pare condizionato dalle alte burocrazie statali, in particolare dal Consiglio di Stato e dalla Ragioneria. I partiti, architrave della democrazia, hanno tutto il diritto di interferire, purché se ne assumano la trasparente responsabilità. In questo momento cercano di condizionare l’esecutivo, anche perché Monti ha commesso alcuni errori nell’esecuzione della riforma delle pensioni che hanno alimentato la protesta.