I familiari di Ernesto Dimpflmeier avevano invano girato il paese alla ricerca di qualche abitante al quale donare una copia del libro “Prigioniero dei liberatori: odissea di un tedesco antinazista in Italia”. Dopo inutili tentativi decisero di lasciarne una copia sulla tomba di don Savino Orsini, che fu parroco di Morrea (L’Aquila), cui peraltro le memorie erano dedicate. A raccontarmi l’episodio è il nipote di don Savino, Goffredo Iacobucci. Nativo di Morrea, vive da tempo a Roma, dove è stato maestro nelle scuole elementari. Tornando in paese aveva ritrovato il libro inzuppato d’acqua, ancora sulla tomba, lì dov’era stato lasciato. Goffredo è rimasto sempre legato al piccolo paese della Valle Roveto, dove è nato nel 1938. Oggi è un paese fantasma, che si rianima in agosto, con tanti morreani che tornano per ritrovarsi, anche grazie alle iniziative promosse dalla proloco. Un’istituzione che ha il merito di far sopravvivere quel che rimane di quel forte senso di comunità di un tempo.
Goffredo Iacobucci era un bambino durante quei terribili mesi che vanno dal settembre 1943 al mese di giugno 1944, che videro il paese letteralmente invaso da prigionieri dell’esercito alleato e militari italiani in fuga, eppure ricorda ancora nomi di militari indiani e inglesi. Tra i tanti fuggitivi Ernesto Dimpflmeier (in seguito Ernesto), disertore dell’esercito tedesco, la cui storia si distingue alquanto da altre memorie che negli ultimi anni hanno fatto riemergere testimonianze di prigionieri che ebbero salva la vita grazie all’aiuto della popolazione abruzzese, anche a rischio della vita. Un fenomeno ormai sempre più identificato come “resistenza umanitaria”, che rappresentò un comportamento spontaneo e collettivo con cui i civili diedero il loro contributo alla resistenza.
Ernesto, nato nel 1916 a Oberösch, in Svizzera, da madre bavarese e da padre polacco di lingua tedesca, fu registrato con il complicato cognome della madre, forse perché i genitori non erano sposati. La circostanza si rivelerà favorevole ad Ernesto, poiché il cognome paterno (Baum) lo avrebbe facilmente identificato come ebreo. Dopo alcuni anni vissuti in Baviera, la famiglia si trasferì in Italia, scegliendo di vivere a Roma, dove nel 1924 muore il padre. Una decina di anni dopo, durante una gita in Abruzzo, Ernesto scoprì Ovindoli. Gli piacque tanto da desiderare di avviare un’attività alberghiera, da gestire insieme alla madre, avendo ben intuito le potenzialità turistiche della località. Madre e figlio si inseriscono bene nel paese ma, allo scoppio della seconda guerra mondiale, scatta per Ernesto l’obbligo del servizio militare, che assolve presso la sede della Luftwaffe a Roma, svolgendo le funzioni di interprete.
Dopo l’8 settembre avvertì la crescente pericolosità della sua situazione, decidendo di lasciare la divisa e andare a nascondersi in Abruzzo. Qui inizia un fase a dir poco movimentata della sua vita. La sua Ovindoli è ben presidiata dai tedeschi. Gli suggeriscono di raggiungere Morrea, nella Valle Roveto, che sarebbe stata un tappa del percorso a sud, finalizzato a superare la Linea Gustav. E qui che il suo racconto, costituito da una serie di appunti non sempre caratterizzato da continuità temporale, fa emergere la coraggiosa comunità di Morrea e il suo parroco. Ernesto raggiunse il paese, che contava meno di 500 anime, il 26 dicembre del 1943, rimanendo per oltre un mese, decidendo poi di raggiungere Cassino e quindi Roma.
All’arrivo degli americani riesce collaborare come interprete, conoscendo oltre al tedesco e all’italiano e anche l’inglese, fino a quando emerge la sua identità. Viene rinchiuso a Regina Coeli e successivamente imbarcato a Napoli per gli Stati Uniti, su una nave, insieme ad altri prigionieri. Dopo oltre un anno e altre peripezie riuscì a tornare in Italia, che considerava il suo Paese. Con la madre tornò ancora ad Ovindoli, iniziando, con la consueta intraprendenza, la gestione di un nuovo albergo cui dette il proprio nome, recuperando la clientela di un tempo, come spiega il figlio Peter nella sua introduzione, nella quale sono inseriti profili biografici della figura paterna. Ernesto morirà nel 2005.
Torniamo a quel terribile inverno del 1943. Morrea, è un piccolo paese della Valle Roveto, una volta comune, a 760 m. di altezza, mentre a valle scorre il Liri, che unisce l’Abruzzo, al basso Lazio e alla Campania. Il paese, frazione del comune di San Vincenzo Valle Roveto, era praticamente isolato. Solo un anno prima, Mario Longo in un suo articolo sul quotidiano “Il Popolo di Roma” (29 agosto 1942) scriveva che “la viabilità lascia molto a desiderare, non essendovi che una sola mulattiera in pessimo stato”, come al tempo in cui vi giunse nel 1791 l’archeologo inglese Richard Colt Hoare (cfr. Classical tour through Italy & Sicily, London, 1819). Altri fattori ne faranno una roccaforte, a partire dall’abitato, raccolto all’interno dell’antico castello Piccolomini.
Fu comunque l’eccezionale capacità di accoglienza e di assistenza messa in atto dal parroco don Savino che, dopo l’8 settembre 1943 e l’arrivo dei primi prigionieri, decise la costituzione di un comitato di assistenza, da lui presieduto e composto da Giuseppe Testa, Pietro Casalvieri e Ugo Gemmiti. La vecchia canonica, ubicata in un’ala del castello, di fronte alla chiesa di S. Michele, dotata di radio, divenne il centro operativo del comitato, che organizzò, con la piena adesione dell’intera comunità, turni di guardia per l’intera giornata all’esterno del paese, assicurando assistenza, cure e, laddove richiesto, guide per superare tra le montagne il fronte a sud, nonostante la povertà e le difficoltà di sopravvivenza degli stessi abitanti, prevalentemente pastori e contadini, in gran parte analfabeti.
I morreani accolsero dal settembre 1943 al 6 giugno 1944, condividendo “il pane che non c’era”, un fiume di “ospiti”, 3100 prigionieri, tra inglesi, indiani, neozelandesi, sudafricani, ecc. oltre a 2700 militari italiani in fuga. Una solidarietà senza confini e con numeri incredibili, confermati da una nota del maggiore Homer A. Stebbins, del Governo Militare Alleato, in data 14 ottobre 1944. I fuggitivi potevano circolare liberi in paese e in caso di allarme si sarebbero potuti nascondere in grotte e altri ripari in montagna. Nelle sue memorie, Ernesto Dimpflmeier racconta che al suo arrivo dormì in canonica, nella stanza riservata al vescovo, scoprendo la bellezza del paesaggio della valle. Rivela di aver visto il “libro d’oro” (così lo chiamava don Savino),” in cui erano registrati oltre seicento nomi”. Ma quello doveva essere solo l’ultimo quaderno riempito in ordine di tempo.
Purtroppo gran parte della documentazione presente un tempo in canonica, ora in abbandono, è andata perduta dopo la morte del sacerdote, che fu l’ultimo parroco del paese. Dimpflmeier annotò tra i suoi appunti “Morrea è uno di quegli sperduti villaggi che hanno dato assistenza a tutti questi profughi, quasi si trattasse di un dovere, compiendo questa missione nel più alto spirito di solidarietà cristiana, nonostante l’estrema povertà e la fame che si andava diffondendo tra i loro stessi abitanti. Sotto questo aspetto Morrea detiene un autentico primato, e molti hanno un grande debito di gratitudine verso questo coraggioso paesino e soprattutto verso il suo valoroso parroco, don Savino”. Ma una spia tedesca, che masticava la lingua italiana, si infiltrò in paese come prigioniero in fuga. Il 21 marzo 1944 il paese fu accerchiato dai tedeschi. Venne arrestato don Savino insieme ai membri del comitato. Portati al vicino comando di Civita d’Antino, furono interrogati, minacciati, picchiati.
Don Savino fu poi rilasciato, come pure Gemmiti e Casalvieri, dopo torture. Non rivelarono nulla, come Giuseppe Testa, che venne trattenuto e poi trasferito al comando di Sora, per poi essere fucilato ad Alvito l’11 maggio di settantacinque anni fa. Non aveva nemmeno vent’anni. Il giovane patriota, medaglia d’oro al valor militare, ricordato da un monumento nella piazza di Morrea e più recentemente da un dramma in cinque atti (Il sacrificio di Giuseppe Testa), scritto da un testimone di quei giorni, Graziano Di Rocco, per le scuole gli alunni delle medie di San Vincenzo Valle Roveto e Balsorano.
L’11 maggio 1945, a pochi giorni dalla liberazione dell’Italia, ci fu una intensa commemorazione nel luogo dove fu assassinato. Don Savino, con la fascia tricolore al braccio, ricordò il sacrificio di Peppino alla presenza dei familiari, dei morreani e dei sindaci della Valle Roveto. Disse che avrebbe voluto essere ucciso al posto di Peppino, ribadendo che era stato soltanto il Vangelo a guidare la sua azione e quella dell’intera comunità che lo seguì con entusiasmo. “Tutto abbiamo dato” affermò. Si tratta di fatti che aiutano a comprendere il senso di gratitudine verso la popolazione abruzzese, espresso dalla scrittrice italo-cubana Alba De Céspedes, quando scrisse: “Che cosa non vi dobbiamo, cara gente d’Abruzzo …?”, ripensando a quando nel 1943-44 si nascose a Torricella Peligna, sulla Maiella.
E per Morrea, il suo paese dimenticato dalle istituzioni, si batté sempre per la strada, l’acqua, il medico. Carenze che contribuirono a favorire l’esodo dal paese, con l’unica strada possibile: l’emigrazione. Tanti partirono. Tra questi Giovanni, di cui noto il manifesto affisso davanti la chiesa, con cui si annuncia ad un paese che non c’è più, la scomparsa avvenuta nel febbraio scorso, a 94 anni, a New York. Niente di più lontano da queste antiche pietre. Annunciare la propria morte ai compaesani costituisce un’abitudine cui i vecchi emigrati tengono ancora, imponendola ai propri familiari. Ed è ancora Goffredo a sostenere che Morrea si è come dissolta dopo la scomparsa del sacerdote, di cui fu guida spirituale ed espressione viva della sua gente per oltre mezzo secolo, dall’aprile 1934 fino alla sua morte, avvenuta nell’ottobre 1986.
Il libro “Prigioniero dei liberatori: odissea di un tedesco antinazista in Italia“ è stato pubblicato a cura dell’Associazione Culturale Il Liri (www.illiri.it), che lo ha presentato a Civitella Roveto alla presenza di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione Comunità Ebraiche Italiane. Nel suo intervento Mary Brocklesby, vedova di Ernesto, si è chiesta come era stato possibile dimenticare la figura di don Savino, che nemmeno una piccola targa ricorda nella sua Morrea. Eppure in quel piccolo cimitero non manca mai un fiore sulla sua semplice tomba, addossata ai piedi della piccola cappella comune.