Navelli (Ph Claudio Giovanni Colombo da Dreamstime.com)

“Da Navelli partirono in tanti, sì che in ogni famiglia c’era almeno un emigrante. Tra i primi, nel 1871 partì Loreto Comitis, nato a Navelli ma di stirpe sulmonese, lattoniere.”

Potrebbe essere questo l’incipit del libro “Quelli che hanno dato – Storia del Meridione dal 1860 a oggi” di Antonio Galeota. Si tratta di un lavoro in progressione che partendo dalla piccola storia di Navelli, stupendo centro dell’omonimo acrocoro che produce il migliore zafferano del mondo, allarga poi la visuale alla Grande Storia dell’Italia, dall’Unità fino ai giorni nostri. Compreso un focus appassionato sul Mezzogiorno, sugli attuali malanni del Paese ma anche sulle sue straordinarie opportunità, proprio partendo dalla soluzione della secolare questione meridionale. Una storia locale, quella di Navelli, che dimostra quanto sia vero che la Grande Storia altro non sia che il mosaico completo delle piccole storie, capaci talvolta di dare inattese risposte, più late, proprio seguendo l’analisi dei dettagli, delle fonti orali oltre che dei documenti, degli aneddoti e delle tradizioni, di quel complesso di elementi morali e materiali, insomma, che costituiscono la cifra d’un luogo, di una comunità e del suo retaggio culturale.

Dunque, anche questo interessante lavoro di Antonio Galeota si configura – nella sua ricca articolazione tra fatti storici locali e vicende nazionali – come un significativo esempio di concezione della “nuova storia”, della quale Jacques Le Goff, è stato uno degli esponenti di punta. Ovvero una Storia che non abbia come fondamenta solo le fonti documentarie, ma anche quelle orali, le tradizioni, la memoria collettiva. Insomma, etnostoria ed antropologia storica diventano elementi importanti di sviluppo della scienza storica. Come l’analisi linguistica, demografica, economica, culturale. Come lo studio dei luoghi della memoria collettiva: archivi, musei e biblioteche, insieme a monumenti, cimiteri e architetture urbane. Ma anche altri elementi “simbolici” – commemorazioni, pellegrinaggi, ricorrenze e tradizioni popolari – e “funzionali”, quali le autobiografie, i manuali, le storie delle associazioni.

L’autore, a mio parere, propone un’opera di forte interesse. Un lavoro che conferma il valore della “storia locale” come elemento essenziale della grande Storia. Questa, come altre opere di storici locali, sono infatti preziose tessere d’un mosaico che ricostruiscono con rara efficacia la memoria collettiva d’una comunità, quella di Navelli ma non solo, nell’ultimo secolo e oltre. La società attuale è troppo distratta da occupazioni effimere, domina sempre più frequentemente il pensiero volatile, mentre sempre meno c’è chi si sofferma, con spirito critico, a riflettere sulle vicende vissute dalla comunità di cui è parte, affrontando la fatica dell’analisi e della ricerca per definirne il contesto e lasciarne poi traccia duratura per le generazioni che seguiranno. Per paradosso, in un tempo dominato dai mezzi d’informazione di massa, si rischia davvero di smarrire la memoria d’una comunità, di perderne il senso della storia.

L’autore dà ampio conto del fenomeno del brigantaggio, nell’analisi sociale che lo generò, con una lettura critica non sempre facilmente rinvenibile, specie riguardo la spietatezza della repressione che l’esercito e i tribunali militari condussero grazie alle norme di giustizia sommaria approvate dal Parlamento su proposta del deputato aquilano Giovanni Pica. Interessante quanto viene narrato sui briganti che operarono tra Popoli e Navelli. Al brigantaggio fece da pendant l’emigrazione. Le gravi condizioni economiche e sociali del meridione d’Italia, seguite alla nascita dello Stato unitario e alla sua politica fiscale, oltre all’accaparramento delle terre pubbliche da parte delle classi dominanti, sottratte ai ceti popolari, e il depotenziamento fino alla scomparsa delle numerose iniziative industriali create dai Borbone, determinarono l’altro fenomeno nazionale dell’emigrazione di massa verso il nord e sud America. Due capitoli Galeota dedica all’emigrazione, trattandone gli aspetti essenziali con particolare accuratezza, anche riguardo la nuova emigrazione di quest’ultimo periodo, che vede espatriare ogni anno 90 mila italiani, sopra tutto giovani. Intento assai commendevole, se si pensa che quel processo di rimozione della memoria, presente il larga parte della classe dirigente, confina ai margini della nostra storia nazionale un fenomeno così cospicuo per il Paese (30 milioni di emigrati in un secolo, diventati ora 80 milioni di oriundi nel mondo, dunque un’altra Italia ben più grande).

Anche sotto tale aspetto il volume è davvero apprezzabile, perché contribuisce ad alimentare interesse e a diffondere la conoscenza della storia nostra emigrazione. Oggi di questa storia si conosce – ma neanche poi tanto approfonditamente – la parte gloriosa: i successi e il prestigio che gli italiani delle generazioni successive alla prima emigrazione hanno conquistato in tutti i campi nel corso di questa vera e propria epopea. Molto meno si conosce la parte dolorosa. L’esercito di braccia che partì dall’Italia verso le terre d’emigrazione, infatti, si trovò a dover affrontare inimmaginabili e drammatiche vicende umane, a lottare ogni giorno contro sospetti e pregiudizi, a subire spesso angherie d’ogni sorta, a doversi confrontare in competizioni durissime con sistemi sociali sconosciuti e condizioni di lavoro altrettanto precarie.

Basti appena ricordare a mo’ d’esempio le tragedie nelle miniere degli Stati Uniti, che stroncarono la vita a migliaia di persone, moltissimi italiani tra loro: a Winter Quarters nello Utah (1900), a Fraterville in Tennessee (1902), ad Hanna nel Wyoming (1903), ad Harwick in Pennsylvania (1904), a Monongah in West Virginia (1907) – la più tragica -, a Cherry in Illinois (1909), a Dawson nel New Mexico (1913), ad Eccles nel West Virginia (1914), solo per citare quelle con il maggior numero di vittime. Dei morti molti erano adolescenti e ragazzi di pochi anni, sepolti nelle viscere della terra. E come non citare la tragedia nella miniera di carbone di Bois du Cazier, a Marcinelle (Belgio), dove l’8 agosto 1956 persero la vita 262 minatori, 136 erano italiani, di cui ben 60 abruzzesi. A queste tragedie andrebbero aggiunte quelle nell’oceano, i naufragi di piroscafi e bastimenti, talvolta autentiche carrette del mare cariche di emigrati nelle loro stive, partiti dai porti di Genova, Napoli, Trieste, Palermo per le Americhe, e inabissati con migliaia dei morti. Sirio, Utopia, Arandora Star, Principessa Mafalda, nomi di navi che subito evocano alcune immani tragedie in mare.

Da qualche anno, finalmente, studiosi e scrittori stanno illuminando con i loro lavori la Grande Emigrazione italiana, favorendo efficacemente la conoscenza del fenomeno migratorio verso lettori e opinione pubblica. Taluni di questi importanti autori Galeota cita opportunamente in questo suo libro. Sono opere, le loro, che segnalano a costo di quali enormi sacrifici i nostri emigrati abbiano conseguito conquiste civili, economiche e sociali nei paesi d’emigrazione. Di quali terribili pregiudizi essi siano stati vittime, perfino nella “civilissima” Svizzera, dove verso gli emigrati italiani è stato tenuto persino qualche referendum dagli evidenti contorni xenofobi. Ma non dobbiamo neanche tacere che un atteggiamento simile ha interessato pure nostri connazionali delle città industriali del nord Italia a danno degli emigrati meridionali. Al riguardo Galeota non fa sconti di sorta e il tema del pregiudizio xenofobo trova icastica espressione nella davvero meritoria trattazione dell’eccidio per linciaggio di 11 emigrati “siciliani” a New Orleans, nel 1891.

L’autore ripercorre giorno per giorno i gravi fatti che sfociarono nel linciaggio dei nostri connazionali, dieci di essi siciliani e l’undicesimo di Navelli. Appunto quel Loreto Comitis, lattoniere, emigrato nel 1871 alla volta di New York e da lì in Louisiana. Una vicenda terribile che, sulla scorta d’un libro di Richard Gambino – “Vendetta”, pubblicato nel 1978 da Sperling & Kupfer -, Galeota riferisce puntualmente, mettendo bene in luce ogni aspetto della vicenda seguita all’assassinio del capo della Polizia di New Orleans. Di quel fatto di sangue, avvenuto il 16 ottobre 1890, furono subdolamente accusati 19 nostri connazionali. Finito il processo con l’assoluzione di sei imputati dall’accusa dell’omicidio, il 14 marzo 1891 la folla, istigata da caporioni, mosse verso il carcere provvedendo al linciaggio in cui persero la vita 11 italiani. Con un’evidente responsabilità delle autorità che, pur a conoscenza del progetto delittuoso e nonostante le sollecitazioni del Console d’Italia a proteggere i nostri connazionali, non fecero nulla per impedire l’eccidio. Non vi erano prove di colpevolezza nei confronti degli accusati, come dimostrò la sentenza, ma furono tuttavia trattenuti nel carcere della Contea “per tutelare la loro sicurezza”. E proprio là migliaia di persone, aizzate anche dalla stampa locale, andarono ad operare il linciaggio. Galeota del fatto analizza le cause, tra le quali ebbero sicuramente rilievo il pregiudizio e l’odio xenofobo verso i nostri emigrati, troppo in gamba per essere stati capaci in Louisiana di trasformare terreni in orti fertilissimi, ma sopra tutto per aver saputo conquistare il mercato e la distribuzione della frutta nel porto di New Orleans, soppiantando l’imprenditoria yankee. Anche questo un fatto della storia della nostra emigrazione totalmente negletto, sconosciuto, che ora anche attraverso questo volume può tornare all’attenzione dei lettori.

L’autore chiude infine il volume con un capitolo dedicato al Mezzogiorno. L’analisi dei mali italiani è impietosa, per il senso etico kantiano che la contraddistingue. Una critica a tutto campo sui privilegi di vecchie e nuove caste. La vera zavorra dell’Italia nel diventare una democrazia evoluta, un Paese davvero moderno ed europeo dove il culto della civiltà sociale si coniuga dapprima nell’esercizio rigoroso dei propri doveri e poi dei diritti. Ma Antonio Galeota non solo denuncia. Offre anche spunti di soluzione ai problemi, mostrando quella sensibilità politica e quella competenza amministrativa che lo hanno fatto distinguere come amministratore, funzionario pubblico e Sindaco. Della questione meridionale, trattata a conclusione del volume, dell’Autore s’avverte la dimestichezza culturale, la conoscenza di quel ricco filone di sensibilità che attinge alle intuizioni di Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato, ma anche più recenti di Pasquale Saraceno e Paolo Sylos Labini. In definitiva, di quella sana cultura del riformismo italiano che nella soluzione della secolare questione meridionale individua la svolta dello sviluppo del Paese, puntando sulle straordinarie potenzialità del Meridione: in campo turistico, culturale, ambientale, agricolo ed enogastronomico, nella ricerca scientifica, nell’innovazione, nell’alta formazione e nella valorizzazione dell’eccezionale giacimento artistico ed architettonico che questa porzione d’Italia detiene.

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